C'è un suono nei cieli d’Europa. Il ronzio di un drone, che taglia il cielo. Che non colpisce, non distrugge, ma osserva, attraversa confini invisibili, si insinua nello spazio aereo di nazioni sovrane. A volte cade, altre volte si dissolve nel nulla. Ma ogni volta lascia un segnale. Un avvertimento. Una sfida. Questi droni non sono strumenti bellici nel senso tradizionale. Sono messaggeri di un conflitto ibrido, strumenti sottili di destabilizzazione psicologica e politica. Negli ultimi mesi, diversi droni partiti da territori controllati dalla Russia o dalla Bielorussia hanno sorvolato la Lituania, si sono avvicinati alla residenza presidenziale, hanno attraversato le linee di sicurezza della Nato, sfiorando il confine romeno. Nessuna esplosione, nessun attacco frontale. Solo un costante senso di minaccia. Un veleno lento e persistente che corrode la fiducia collettiva. Putin non ha bisogno di un'invasione per mettere in crisi l'Europa. Gli basta farla sentire vulnerabile. Alimentare il dubbio, insinuare la paura. Ogni drone è una domanda lasciata sospesa: siamo davvero al sicuro? E se l'Alleanza Atlantica non reagisce con decisione, se ogni violazione viene derubricata a incidente tecnico, allora la percezione di forza della Nato viene lentamente svuotata. La deterrenza si trasforma in debolezza. L'unità in disgregazione. La strategia è chiara e lucida: far sembrare l'Europa esposta, sola, inaffidabile. Spingerla a dubitare di se stessa. Per Putin, è un gioco a lungo termine. Non ha bisogno di vincere con le armi, gli basta far perdere agli altri la convinzione di poter vincere. E intanto osserva. Testa i limiti. Analizza le reazioni. E prepara il terreno per una nuova fase geopolitica. In questo quadro si inserisce un'ipotesi che, fino a poco fa, sembrava inverosimile e che oggi invece si fa strada nei corridoi della diplomazia: un vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin, con la possibile partecipazione di Volodymyr Zelensky. Non si tratterebbe di un semplice negoziato. Sarebbe un passaggio epocale. Un momento che potrebbe ridisegnare l'ordine mondiale emerso dopo la Seconda Guerra Mondiale e consolidatosi con la fine della Guerra Fredda.

Trump e Putin, due leader che diffidano delle istituzioni multilaterali e prediligono la trattativa diretta, il linguaggio del potere del compromesso, potrebbero trovarsi sorprendentemente allineati su un punto: chiudere la guerra in Ucraina, ciascuno secondo i propri interessi. Trump, con la promessa di "fermare la guerra in 24 ore", cerca visibilità e capitalizzazione politica. Putin, dal canto suo, punta a legittimare le conquiste territoriali e rompere l'isolamento internazionale. In questo ipotetico incontro, Zelensky rischia di trovarsi solo. L'eroe della resistenza ucraina potrebbe diventare un attore secondario, costretto ad accettare una pace amara pur di salvare il suo Paese. Una neutralità forzata, un congelamento del conflitto, una ridefinizione dei confini sotto la minaccia implicita di un abbandono da parte dell'Occidente. E l'Europa? Esclusa dal tavolo delle trattative. Umiliata nella sua impotenza diplomatica. Spinta ai margini proprio mentre la partita decisiva si gioca sul suo stesso continente. In questo scenario, l'Unione Europea non solo perderebbe la sua credibilità internazionale, ma rischierebbe una crisi interna devastante. I Paesi dell'Est si sentirebbero traditi. Quelli dell'Ovest indecisi sul da farsi. La coesione già fragile dell'UE si disgregherebbe sotto il peso delle divergenze strategiche. Un elemento fondamentale che si inserisce in questo scenario è la questione energetica. L'autonomia energetica dell'Europa rappresenta uno degli obiettivi più ambiziosi e strategicamente cruciali per il futuro del continente, ma anche uno dei più minacciati. L'interdipendenza costruita per decenni con la Russia, e l'attuale dipendenza dal gas naturale liquefatto statunitense, pongono l'UE in una posizione di vulnerabilità sistemica. Un'Europa capace di produrre energia pulita, autonoma e sostenibile diventerebbe un attore davvero indipendente sulla scena geopolitica. Ed è proprio questo il punto: né Trump né Putin vogliono che l'Europa diventi indipendente. L'uno perché teme la concorrenza economica e l'emancipazione difensiva. L'altro perché perderebbe il potere di ricatto che da sempre esercita attraverso le forniture energetiche.

Indebolire l'Europa, oggi, significa anche ostacolarne la transizione energetica e sabotarne la sicurezza energetica. Un accordo tacito tra Trump e Putin, mirato a ridimensionare l'Europa e a congelare l'Ucraina in una zona grigia geopolitica, non è frutto di fantasia complottista. È una possibilità concreta, già scritta nei gesti, nei silenzi, nei voli di quei droni che attraversano i cieli senza farsi notare. Non serve una guerra per far crollare un continente. Basta isolarlo. Marginalizzarlo. Lasciarlo fuori dal gioco. E l'Europa, se non reagisce, rischia esattamente questo destino: diventare irrilevante nel nuovo equilibrio mondiale che altri stanno già scrivendo, senza di lei. L'epilogo di questo disegno è già in atto. Trump vede l'Europa come un fardello, un alleato sleale sul piano commerciale e difensivo. Putin, come un ostacolo all'espansione del suo impero post-sovietico. Se i due trovano un punto di convergenza, fosse anche solo parziale, il bersaglio comune diventa evidente: l'indebolimento strategico dell'Unione Europea. Non serve una dichiarazione ufficiale. Basta che si trovino d'accordo sull'opportunità di rimettere al proprio posto un continente che si è illuso di contare qualcosa. Un continente che oggi deve decidere se restare uno spettatore del proprio declino o riscrivere il proprio destino.
