La faccenda è sempre quella, uno non sa mai come muoversi. Perché di fronte alla notizia del giorno, chiamiamola così per convenzione, anche se spesso una notizia non è, viene richiesta dal tribunale del popolo una posizione ferma e sicura, e possibilmente immediata. Bianco o nero, Guelfi o Ghibellini, Fedez o Lucarelli. E di fronte alla notizia del giorno viene anche richiesto non solo di essere immediatamente schierati, ma di esserlo con tale convinzione da poter poi superare l’ostacolo dello scontro, lì sui social, dove ormai l’agone si tiene. Faccenda, questa, che prevede ovviamente tutta una serie di sfumature, quelle concesse dal tribunale del popolo, tribunale del popolo che quasi mai se ne avvantaggia. Nel senso che di fronte alla notizia del giorno buon senso e logica ci dovrebbero automaticamente portare a prendere la posizione giusta, quella scontata, spesso la notizia del giorno è talmente poco complessa da non prevedere sfumature di sorta, ma fare un passetto indietro e schierarsi sul fronte opposto, rovesciando le istanze, indicando un punto di vista originale, originalità parziale, stiamo parlando di canoni, prendere le difese degli indifendibili, diventa posa, certo, ma posa cool, di quelle che poi ti fanno dire, hai visto? Io non mi sono schierato con la massa, col popolo bue, anche se figurati se chiami il popolo bue popolo bue, non scherziamo.
Esiste anche chi, raro, rarissimo, prova il triplo salto mortale, ritornando sulle posizioni scontate, ma dopo aver fatto il giro delle sette chiese, ribaltando il ribaltato, ripristinando quindi il corretto ordine delle cose, ma son sempre posizioni del giorno, destinate a non lasciare traccia futura. Per questo, non solo per questo ma anche per questo, mi capita spesso di non esprimere opinione riguardo alle notizie del giorno, arrivando semmai a farlo giorni e giorni dopo, quando nel mentre si dibatte d’altro, maledetto dai social media manager, dai caporedattori e anche da quei lettori con la memoria di un pesce rosso, a cui, per dirla con le brutte parole di questi tempi, sblocchi un ricordo che però nulla ha a che fare col passato remoto, semmai con quello prossimo, a volte quasi con l’oggi. Per dire, è tutto un dibattere, ormai da più di un giorno, su quelle persone che, accorse a rendere omaggio a Maurizio Costanzo al Campidoglio, invece che appoggiare un fiore sul feretro, hanno chiesto alla vedova, Maria De Filippi, di nero vestita e con occhialoni altrettanto neri, di posare per un selfie. Lo si è fatto con la violenza che contraddistingue la contemporaneità, evocando e invocando apocalissi e meteoriti, ravvedendo in questi selfie il segno di un decadimento morale e intellettuale senza precedenti, stigmatizzando non solo il gesto ritenuto osceno, ma addirittura la compostezza con cui la vedova Maria De Filippi avrebbe posato nei selfie, invece di cacciarli a calci nel culo, come Gesù coi mercanti nel tempio.
Presa coscienza dell’insensibilità e demenza dei selfatori, tirato in ballo Gerry Scotti, che ebbe a raccontare che quando morì la madre gli vennero chiesti autografi al di lei funerale, autografi che, superato un momento di rabbia, si ritrovò a fare, non tanto per dar seguito al motto “the show must go on”, quanto piuttosto per rispetto a chi in fondo aveva sostenuto la sua carriera, sua madre, appunto, si è passati a dire che in fondo la colpa di quei selfie, o meglio la colpa dell’ignoranza e dell’insensibilità di chi quei selfie ha chiesto è proprio della vedova, Maria De Filippi, e volendo anche del di lei marito, nel feretro, Maurizio Costanzo, perché se propini per anni la televisione del dolore poi a questo arrivi. Come dire, hai suffragato con C’è posta per te ogni tipo di esposizione del dramma familiare, raccontandolo certo in tono neutro, quello della sua caratteristica voce, ma andando comunque a mettere in scena spettacoli miserevoli, e dando per buona l’idea che tutto si può, anzi, si deve raccontare in tv, perché mai si dovrebbe pensare che l’insensibilità bidimensionale di chi chiede un selfie in camera mortuaria abbia altre origini?
Passare dall’essere solidali a chi si stava stringendo nel proprio dolore a stigmatizzarla, anzi, accusarla di aver prodotto tutto questo, se non fisicamente almeno moralmente, mandante del suo stesso killeraggio, è stato un attimo. Come tanti Aldo Grasso che a cadavere ancora caldo incensano il personaggio, che hanno sempre criticato, arrivando a criticare l’uomo, ritenuto troppo vicino al potere, come se Aldo Grasso fosse un outsider, lì da una vita a scrivere di tv sulle pagine del principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera, non certo a vergare poesie a mano da attaccare poi a una statua, come Pasquino, tutti a fare la morale a chi quella morale ha distrutto, poco conta che poi ne sia rimasta vittima, seppellita nella casa con le fondamenta di sabbia che ha contribuito a costruire. Qualcuno, incontri ravvicinati del terzo tipo, ha provato a dire che in fondo quello poteva anche essere un modo, certo discutibile, di omaggiare il morto, o almeno chi è sopravvissuto al morto, la vedova, perché nella società dello spettacolo 2.0 è questo il modo di esserci, quello che un tempo sarebbe stata la presenza silenziosa in una chiesa, quella degli Artisti, che avrebbe accolto le esequie, per altro di chi si è sempre dichiarato ateo, strano nessuno abbia avuto da ridire anche di questo.
Io credo, vivo in questi strani giorni, mica vi sarete detti che avrei evitato di esprimere la mia opinione, che il nocciolo della questione sia nascosto nelle trame della complessità, quella che sì, Maria De Filippi ha forse portato verso l’estinzione, con quella neutralità di narrazione, e che nella complessità esprimere un giudizio tranchant, dato a distanza, partendo dal frame che ci mostra un selfie, come in una scala di Escher, che della complessità è stato in qualche modo fotografo, sia quanto di più sbagliato. Perché sì, chiedere un selfie a una veglia funebre è aberrante, ma lo è per chi ha nutrito nel tempo una sensibilità che sembra non trovare più residenza in questi luoghi, e sì, probabilmente la assenza di sensibilità è in parte imputabile a chi ha reso il dolore una questione da sbrigare tra uno spot e l’altro, a beneficio di camera (tra quella della tv e quella dello smartphone, in effetti, non è che cambi molto), ma un tempo ci si sarebbe soffermati più su chi è finito a esprimere la propria insensibilità, magari addossandosi come società la colpa di questa china, più che star lì a fare processi sommari, si sarebbe provato a dirsi che abbiamo tutti sbagliato qualcosa, accompagnando in caso chi si sarebbe ritenuto in errore verso un angolo illuminato, non certo verso il patibolo, lasciando chi in tutti i casi piange il proprio dolore seguendo i canoni, occhiali neri a nascondere gli occhi, il proprio momento di lutto, certo senza fare la morale o andando di puntualizzazioni.
Abbiamo dato a lungo per buona l’idea che a ogni morte importante, importante dal punto di vista mediatico, certo, ma anche di popolarità, chiunque potesse piangere partendo da un ricordo personale, questo prima che Zerocalcare provasse a arginare l’inarginabile, lasciando poi che un certo cinismo prendesse il sopravvento e che quelli che prima erano modi di dire forse stucchevoli, “insegna agli angeli”, “la terra ti sia lieve”, diventasse roba buona per i meme, non lasciamo che il cinismo si prenda anche tutto il resto, lasciandoci orfani non solo del personaggio importante del momento, nello specifico Maurizio Costanzo, ma domani sarà qualcun altro, ma soprattutto ci lasci orfani del sacrosanto diritto di esprimere il nostro più o meno sentito dolore come stracazzo ci pare.