Vittorio Sgarbi, il celebre critico d'arte noto per il suo temperamento impetuoso e la sua visione provocatoria, è attualmente ricoverato al Policlinico Gemelli di Roma. Da qualche giorno, la sua salute è al centro delle preoccupazioni, alimentando il dibattito sui limiti e le fragilità anche di chi sembra indomabile. A rivelare la sua condizione è stato lo stesso Sgarbi, che ha confessato di soffrire di una forma di depressione. Dieci anni fa una grave ischemia cardiaca lo portò a un intervento e al ricovero in terapia intensiva al Policlinico di Modena.
Le novità sulla malattia di Sgarbi non lasciano indifferenti gli amici più stretti. Tra questi, anche Marcello Veneziani, intellettuale e scrittore che, in una lettera pubblicata su La Verità, ha voluto esprimere il suo affetto e la sua preoccupazione per l'amico. Il titolo della lettera, “Rialzati e cammina, capra!”, è un chiaro richiamo al carattere esuberante e spesso sopra le righe di Sgarbi, ma al tempo stesso un invito a non arrendersi.

In un’intervista al Corriere della Sera, Veneziani ha raccontato la sua visione di Sgarbi e della sua sofferenza. “Vittorio è un talento unico, ha una capacità intuitiva di attribuire opere e riconoscere autori come pochi. Ma ora, la malattia e la depressione lo stanno mettendo alla prova”, ha dichiarato. La depressione, secondo Veneziani, non è solo un sintomo della sofferenza fisica, ma anche una conseguenza di un “narcisismo ferito”, come lo definisce. Sgarbi, abituato a dominare le scene, a essere il protagonista assoluto, si trova ora a fare i conti con una realtà in cui molte delle sue libertà impulsive sembrano impossibili da esercitare. Questo restringimento del suo “universo” interiore, sempre vasto e sfacciato, risulta drammatico per chi ha vissuto con la sensazione di poter “cavalcare il mondo”. Un'impresa che ora sembra più difficile da realizzare.

Una vita intera a correre, a riempire il mondo con la propria voce e il proprio sapere, e ora, invece, il silenzio regna sovrano: "Trascorro una fase di meditazione dolorosa su quello che ho fatto e sul destino che mi attende. Le cose che ho scritto, le opere d’arte, tutto ciò che vedi è un progetto di sopravvivenza. Qualcosa che rimanga oltre la mia vita”. Si guarda indietro, al bambino che era. A quello studente ribelle che sfidava i preti leggendo Senilità di Italo Svevo in collegio, e che veniva rimproverato con una beffa da manuale: “Disse ai miei genitori: ‘Vostro figlio deve leggere libri formativi’. ‘E quali?’, chiese mio padre. Rispose: ‘Il giovane Werther di Goethe’. Ma anche quel libro era proibito!” La sua vita è stata un continuo giocare con i limiti, sfidarli, ridefinirli. Oggi, però, non sembra più esserci voglia di combattere: “Oggi guardo le cose senza il desiderio di essere coinvolto. Senza rappresentare una parte”, ammette. Eppure, per anni, è stato prigioniero di quell’immagine pubblica di uomo irruento: “Era una realtà profonda che diventava immagine. Oggi, nel ripensare a certe cose di allora, è come se vedessi un altro me”.

Gli anni della tv, delle risse verbali, degli scontri memorabili. Ma la televisione era una trappola? “Non c’è dubbio. Non era una recita a teatro ma la rappresentazione del mio temperamento. Questo è stato il senso della televisione per me”, risponde. Forse un modo per esorcizzare qualcosa, per gridare al mondo la sua esistenza, fino al punto di non riuscire più a distinguere il vero Sgarbi dall’immagine che gli altri avevano di lui. Oggi la sua realtà è un’altra. Il peso della vicenda giudiziaria, l’incertezza sul futuro. “In modo intenso, direi devastante. Di alcuni atti, eseguiti in assoluta naturalezza, mi vengono imputati una serie di comportamenti che non erano i miei. Ho sempre cercato di avere cura e attenzione per le opere. Che dal loro studio, e in certi casi dal loro acquisto, se ne ricavino le mie cattive intenzioni mi crea certamente dei turbamenti sgradevoli”. Il gioco è finito? “Sì, come un bambino mi sono divertito molto. Oggi molto meno. Oggi mi chiedono di rispondere di quello che avrei fatto. Come se i giochi fossero diventati delle realtà pericolose. Giochi difficili. Questa è la percezione del bambino che si è scoperto adulto”.

Il tempo del rumore è finito, resta solo la paura: “Rumore del passato e paura del futuro. Paura, incertezza, mancanza di capacità di programmare in maniera tale che io possa sapere come e quando qualcosa avverrà. È un dubbio e anche un disturbo della percezione”. Cosa resta, allora, di Vittorio Sgarbi? Di quell’intellettuale che ha segnato il dibattito culturale italiano per decenni? “Il mio dolore, che contrasto con l’assenza. E questa con l’attesa”. Sentirlo parlare così è straziante, soprattutto perché c’è la consapevolezza che sono milioni gli italiani che si sentono come lui. Per chi non lo sapesse, o facesse finta di non vederlo, beh, il disagio mentale uccide in mille modi. E, spesso, ci si sente morti anche quando il cuore batte ancora. Ma c'è una cosa che non può passare inosservata e che molto probabilmente è legata al suo attuale stato d'animo: la sua vicenda giudiziaria. Le accuse contro di lui sono molto pesanti e lui pensa di uscirne “sperando che si affermi una verità, che è la verità dello spirito con cui ho fatto queste cose”. Ecco, forse per la prima volta siamo davanti a una vera e propria ammissione di Vittorio Sgarbi. Un'ammissione in cui però il critico d'arte chiede una sorta di grazia, provando a spiegare e a far capire che ciò che lo ha sempre mosso è stato quel suo incondizionato amore nei confronti dell'arte. Sì, l'aspetto penale, giuridico è tutt'altra cosa, ma è come se lui ci chiedesse, quantomeno moralmente, di restituirgli una piccola parte di tutto ciò che lui ha donato all'Italia e alla nostra cultura.