C’è una nuova parola (e quindi un nuovo concetto) che si aggirano per l’Italia: l’isocrazia. La sua prima, furtiva, apparizione la si deve a due autori, Pier Giorgio Ardeni e Stefano Bonaga, autori di un articolo del 19 dicembre del 2020 uscito su Il Manifesto e le firme dietro all’impulso ottimista dato alla riflessione politica del Belpaese da un libricino da loro curato, L’impotenza della politica: Il partito, i corpi intermedi e l’isocrazia della cittadinanza attiva (Castelvecchi 2023). Ma cos’è l’isocrazia e perché mette (o dovrebbe mettere) d’accordo tutti a sinistra, da Pier Luigi Bersani a Gianni Cuperlo, passando per Luigi de Magistris e un inizialmente scettico Romano Prodi, che invece chiude il libro con la sua postfazione? E, ancora più importante, come saprà interpretare Elly Schlein, alla guida del PD, il percorso tracciato a debita distanza sia dai populismi (di destra e di sinistra che siano) sia dal tecnicismo riformista del liberalismo nostrano (oggi fin troppo adeguatamente rappresentato dalla diade Calenda-Renzi)?
“Sotto la coltre mortifera della pandemia, l’orizzonte politico è scomparso”: questa è la diagnosi che fa da premessa al discorso isocratico. Discorso, perché a giudicare dalla natura dei contributi raccolti nel libro, si tratta di rimettere in discussione un orizzonte simbolico che risulta stantio e, ancora di più, impotente. Questo orizzonte non è altro che il punto di arrivo a cui la politica è arrivata e – come orizzonte – dove era prevedibile sarebbe arrivata. In estrema sintesi: la politica è oggi impotente. Che non vuol dire, esclusivamente, che la politica sia subalterna ad altre forze ben più pervasive e geneticamente biopolitiche (come l’economia da quando, in età moderna, ha smesso di essere pura “ragioneria”, cioè un tenere i conti); bensì, piuttosto, che la politica ha sistematicamente sfiduciato, liquidato e, a scomparsa avvenuta, vilipeso la potenza. Se il discorso sembra complesso potrebbe essere solo per un problema di vocabolario. La potenza, infatti, è stata cacciata dal locale della politica, i cui buttafuori che le impediscono di rientrare sono oggi l’assenza dei corpi intermedi (i partiti) e una cultura dei piccoli gesti, della rivoluzione interiore. In altre parole: Beppe Grillo e Tiziano Terzani. Ovvero: chi ha completamente sostituito alla politica il populismo (che a destra assume, sempre più pericolosamente, la forma di un autoritarismo velato, radicalmente diverso dal fascismo) e chi ha pensato che il cambiamento possa passare da un personalismo contrapposto a quello del Potere (che di volta in volta è stato incarnato non da grandi gruppi organizzati, ma da grandi nomi carismatici, come Silvio Berlusconi o Matteo Renzi).
Il termine isocrazia richiede che si faccia, come evidenziato proprio da Ardeni e Bonaga, un passo indietro di qualche millennio, per arrivare all’origine del termine democrazia, parola che, al contrario di monarchia, autarchia, anarchia, oligarchia (che hanno in sé il seme del “comando”, archia) mette al centro il potere degli individui attivi, i polites (contrapposti agli idiotes, gli individui interessati solo al privato). Per conservare e ampliare questo “potere del popolo” sono necessaria la capacità da parte dei cittadini di decidere e di avere un’opinione. Oggi sembra sia sopravvissuto solo il primo dei due elementi, ma a un livello talmente spurio e rarefatto da concretizzarsi in un voto, ogni 5 anni, e basta. Una cosa, è il caso di dirlo, da idiotes più che da polites. Manca totalmente la partecipazione, cioè, soprattutto esercitata attraverso l’opinione. Che non vuol dire solo esprimere un parere, ma far sì che il proprio parere conti. Come? Attraverso l’uso della propria potenza. Questo termine ha una storia complessa e raffinata, che ha in un autore in particolare, Baruch Spinoza, una sistematizzazione che val la pena di recuperare. Potenza è potenza di agire. Oggi diremmo: potenziale. Il cittadino, per essere tale, deve poter sviluppare il proprio potenziale nel campo della cosa pubblica. Quindi i progetti, la scelta di dedicare del tempo, l’attivismo (ma prima l’attività). E qui entra in gioco l’isocrazia, cioè: “ugualmente ogni cittadino dispone a vario titolo di una forma di potenza”. In vari incontri pubblici Stefano Bonaga avrebbe detto: “Smettiamo di chiedere alla Politica cosa può fare per noi e chiediamoci cosa noi possiamo fare per lei”?
Il fallimento della Politica, oggi, passa per un fallimento dei polites, cioè dei cittadini. Cittadini che votano e se ne lavano le mani, lasciando la Repubblica agli umori dell’altalena populista italiana. Questa tesi è confermata non solo dalla recente vittoria a livello nazionale, con Fratelli d’Italia al giro di boa dell’incarico governativo, ma ben prima, con gli slogan grillini dissipatori, a partire da quel “vaffa…” che di politico non ha mai avuto niente. Cioè che non funziona, oggi, è la cinghia di trasmissione che lega partiti e base e, ancor più profondamente, i componenti della base. Manca, cioè, un modo di incanalare la potenza al di là delle azioni dei singoli. Manca un Partito, certo, e ugualmente manca chi possa dare al Partito prospettive e progetti. L’isocrazia è quindi un termine nuovo, che arriva in modo provvidenziale in un momento in cui, come scrive Moni Ovadia nel suo breve contributo, alla politica serve un linguaggio diverso. Un linguaggio, possiamo aggiungere, pieno di contenuto e lontano dagli slogan. Questa proposta è stata accolta positivamente dai veterani del centrosinistra, alla guida variamente in un partito, il PD, che non ha saputo fare pace con la sua stessa natura, entrando in crisi e finendo per essere un nucleo chiuso impermeabile ai cambiamenti della nostra epoca. Come un adolescente (il Partito Democratico è giovane) già vecchio, ma non perché troppo simile ai suoi antenati (il PCI?); bensì perché troppo scarno, privo di forza. Anzi! Privo di potenza. Ma l’isocrazia può essere la soluzione. Basti vedere come ha saputo accogliere nella sua riflessione gli stimoli “pessimistici” di Franco Bifo Berardi, la proposta antropologica di Franco la Cecla, la speranza sociologica di Domenico De Masi e Romano Prodi (che vedono a questo termine come si guarda a una cura ricostituente per un soggetto disidratato quale è, oggi, il PD). E, pure, la voglia di ricostruire di chi, come De Magistris, crede che ponendosi fuori dal sistema si possa far del bene all’animale morente: la sinistra. In questo senso Elly Schlein, fuori dalle dinamiche di partito (e mai iscritta finora), potrebbe essere il soggetto politico capace di integrare la base teorica dell’isocrazia in un processo di rinnovamento. Nonostante le prime settimane da segretario l’abbiano vista completamente distratta e preda di slogan e apparizioni televisive prive di contenuti (l’ultima da Cattelan, in cui l’abbiamo vista cantare Immagine di John Lennon), le condizioni e l’ottimismo (declinato in chiave realista, ovvero attraverso tempistiche e proposte fattibili) per una svolta isocratica ci sono. E per primi noi di Mow lanciano la sfida alla nuova leader del centrosinistra, invitandola a confrontarsi nuovamente con la base, in uno spirito nuovo inaugurato da Pier Giorgio Ardeni e il Socrate – “colui che non scrive”, direbbe Derrida – della sinistra, che a distanza di anni da un lavoro sulla potenza amorosa (e politica), Sulla disperazione d’amore, sta tendendo nuovamente la mano verso il bene sociale e la rinascita dello spirito di partecipazione.