Da un lato il tono sbraitante da capopopolo, i decibel che si alzano laddove serve. Dall’altro la diretta social da comandante in capo in pectore, cannone ad alzo zero ma modulazione della voce rassicurante, con il ghigno di chi sa che ora può passare all’incasso. La partita del Quirinale per Giorgia Meloni si definisce in un mese e mezzo nel quale ha azzeccato ogni mossa, dai prodromi ai postumi di un’elezione che l’ha vista attrice non protagonista - e come avrebbe potuto essere altro, con una dote di appena 64 grandi elettori su 1009? - ma capace di vincere l’Oscar nel ruolo.
Atreju, 11 dicembre, il giorno in cui chiese un patriota al Colle: “Alla prossima elezione capo dello Stato il centrodestra ha i numeri per essere determinante, e quello che vogliamo noi è un Presidente della Repubblica eletto per fare gli interessi della nazione e non del Pd”. Il messaggio, una minaccia agli alleati del suo largo campo: occhio, se non sarà così (e non sarebbe stato così, lei ci avrebbe scommesso), preparatevi al redde rationem. Eccolo, Roma, 30 gennaio, un video da casa propria, o dovunque fosse, commentando il risultato finale: “Il centrodestra a livello parlamentare è oggi polverizzato, però è ancora maggioranza tra gli italiani, e quegli italiani meritano una proposta politica che sia adeguata, che sia alla loro altezza”. Come si legge? Due parole: la mia. Meloni non aveva nulla da vincere ma, grazie alle manovre che hanno portato alla rielezione di Sergio Mattarella, s’è presa tutto: per tattica, leadership e propaganda ha azzeccato ogni mossa, favorita in questo da uno straordinario punching-ball chiamato Salvini, kingburner più che kingmaker, la figura che mostra più di chiunque altro che il potere politico non logora tanto chi non ce l’ha - e Fratelli d’Italia, all’opposizione, certo non ce l’ha - ma piuttosto chi non è capace.
Come lui che, con i piedi in due scarpe - quella governista alla quale partecipa pure Forza Italia e quella del campo politico di centrodestra - e senza una strategia concreta, ha preso colpi da tutte le parti. Dal punto di vista del posizionamento tattico, Atreju ha rappresentato la miccia, mentre è stata la settimana dell’elezione del Capo dello Stato quella del consolidamento della leadership meloniana proiettata e percepita. È il terzo scrutinio, quello del 26 gennaio, il giorno in cui tutto si svela: al cospetto di un centrodestra incapace di trovare una linea, Meloni ha lanciato il suo primo candidato di bandiera, Guido Crosetto. Allo spoglio facevano 114 voti: tutti i suoi più altri cinquanta e, mentre due giorni più tardi Salvini bruciava in un comico falò delle vanità la carta Casellati - tutt’altro che un briscolone - con le defezioni di più di qualcuno dei suoi, il 29 gennaio Fratelli d’Italia si appropriava del nome di Carlo Nordio portandolo allo spoglio con tutti i suoi 64 voti. Una falange fedelissima e disciplinata che attendeva solo l’accordo governista per accusare i vicini di alto tradimento. E giù bordate: “Il problema è che siamo in un Parlamento dove si preferisce barattare sette anni di presidenza della Repubblica con sette mesi di stipendio” (capo d’imputazione: poltronismo), “Salvini mi ha chiesto: ‘Sei in ufficio? Salgo’. Da allora non l’ho più sentito” (doppiogiochismo), “il principio che si vuole affermare è che tra le decine di milioni di italiani di centrodestra non ci sono figure che abbiano la dignità di ricoprire la carica di capo dello Stato” (viltà), chiosando il tutto con un patriottico richiamo costituzionale - sufficientemente ironico considerando il pulpito - nello spiegare Urbi et cronisti che la rielezione è una «fattispecie che nella nostra costituzione non è vietata solo perché si voleva lasciare questa ipotesi nel caso di una emergenza reale”.
Fratelli d’Italia era fuori dai giochi e fuori dai giochi è rimasto, ma sfrutta l’opposizione come il Salvini dei tempi migliori. Certo, è facile fare da macchina dei consensi quando si è all’opposizione: si può chiedere di tutto facendo la voce grossa e cavalcando l’indignazione perché non si deve garantire niente, e proprio per questo viene facile intercettare le grida di un disagio sociale tangibile e farle proprie anche perché, dal lato opposto, la sinistra parlamentare da salotto semplicemente non ha più idea di come riprendersi un terreno che era suo, al quale non ha saputo rispondere e che conseguentemente ha perso per usucapione. Meloni lo sa bene: per i prossimi sette mesi, ogni strillo sarà un voto, ogni protesta un lotto di consensi. Andrà bene qualsiasi cosa, perché davvero alle urne - molto più che in Parlamento - uno vale uno, dagli irriducibili no vax agli incazzati dell’antipolitica che hanno creduto, almeno in parte, nei 5 Stelle, per non parlare dei leghisti delusi da Salvini. Tutto in discesa?
Non proprio, o meglio: è assai probabile che Fratelli d’Italia inizi a incassare i dividendi della partita del Colle, a staccare la Lega nelle prossime intenzioni di voto e prenda il comando della coalizione, ma i numeri più di tanto non possono salire. Il motivo lo spiega il politologo Marco Valbruzzi, professore di Scienza Politica all’Università Federico II di Napoli: “Fratelli d’Italia ha un tetto ideologico che le impedisce di crescere oltre una certa quota. La fiamma tricolore che ancora campeggia nel suo simbolo porta con sé uno stigma, dal punto di vista simbolico, che potrebbe non consentirgli di assorbire tutti gli elettori che, pur vicini all’area di centrodestra, ora si trovano privi di un riferimento”.
Di cosa parliamo? Al massimo di un 25%, forse qualcosa in più ma comunque un po’ meno del lontano apogeo leghista, e quanto forte potrà essere la sua voce nel prossimo Parlamento dipenderà anche dalla legge elettorale. Contare i voti e i rapporti di forza col Rosatellum e con un ipotetico proporzionale qualcosa cambia. Ma questo è un altro discorso. Ora Meloni punta a sfruttare il momento, a quei voti vuole arrivarci e schiarisce la voce. Già sa che la sentiranno tutti.