Attualmente Gaza è un carcere con due carcerieri. Ci sono molte conseguenze del controllo di Israele sulle frontiere e della sproporzione di risorse e forze dietro a questa guerra (anche negli anni passati). Il più evidente è che i palestinesi non possono scappare da Gaza. In parte per controlli interni di Hamas, ma soprattutto per regole e imposizioni israeliane spesso giustificate per motivi di sicurezza. Questo vuol dire, tra le altre cose, che i palestinesi non possono “votare con i piedi”. Ma perché dovrebbero votare con i piedi? Perché Gaza è invivibile a prescindere da Israele. Da vent'anni governa di fatto Hamas, non ci sono libere emozioni, non c'è libertà di stampa e di informazione né libertà di parola, non ci sono i “diritti civili”, le donne non sono tutelate (le statistiche sulla violenza domestica farebbero rabbrividire le femministe che guardano all'Italia come una società patriarcale), non c'è libertà di religione e culto, non c'è libertà nell'istruzione, le scuole sono completamente gestite dai terroristi, non ci sono praticamente investimenti di alcun tipo (questi anche per colpa di Israele) e non ci sono diritti di proprietà (questo anche per colpa di Israele).
Gaza è uno dei posti peggiori in cui vivere e lo era anche prima di questa guerra, che sta mostrando chiaramente fino a che punto le contraddizioni politiche di quel luogo infernale possano danneggiare la popolazione civile. Non solo perché Israele sta ormai conducendo una guerra che serve solo a tenere in vita un governo di ultradestra che dovrebbe essere processato, una guerra che porta a massacri incredibili, nonostante sui numeri si debba essere cauti (sia perché i numeri li dà Hamas, sia perché Hamas con i numeri, in questa guerra soprattutto, pare stia leggermente barando). Ma anche perché i palestinesi sono, consenzienti o meno, volontari o meno, assorbiti completamente nella visione politica dei fondamentalisti che non solo vedono nei civili gente da sacrificare, martiri involontari di una causa che gli è stata imposta, ma che hanno costruito negli anni un'intera infrastruttura capace di aumentare incredibilmente il numero di morti civili a dispetto, probabilmente, del numero di danni inflitti al gruppo terroristico stesso. Sono davvero degli scudi umani, i palestinesi, sugli avambracci di radicali dediti alle razzie benedette, finanziati da Stati (anche, come nel caso del Qatar, con il benestare di Netanyahu), alleati con altri gruppi fondamentalisti che auspicano al cancellazione totale di Israele (basti vedere la bandiera degli Houthi).

Di fronte a questa guerra, come mi pare di poter intendere le parole di Papa Leone XIV, serve una pace giusta, e cioè una pace che non sia la vittoria totale né di Hamas né di Israele, ma sia una vittoria dei popoli, una fine del massacro, il processo per un governo che va condannato e la lotta degli Stati contro una forza terroristica che ha imposto al mondo degli standard di guerra immorali, fatti di attacchi terroristici a cui non seguono vere battaglie, ma il gioco del nascondino a scapito degli esseri umani lasciati nella fame e nella povertà, mentre nei tunnel la luce, l'acqua, il cibo non mancano mai. Nei giorni scorsi, per poco in Italia, giravano le parole di Sami Abu Zuhri, un funzionario abbastanza radicale e controverso di Hamas, che ha detto: “Una casa distrutta verrà ricostruita... I grembi delle nostre donne daranno alla luce un numero di martiri ben superiore a quello dei martiri. Sapevate che il numero di neonati a Gaza è pari al numero di martiri uccisi in questa guerra? Almeno 50.000 bambini sono nati a Gaza durante la guerra. Cosa spinge le persone in America, in Francia e altrove in Europa a convertirsi all'Islam? Non dobbiamo ridurre la questione a 20, 100 o 1.000 case distrutte a Gaza. Le implicazioni di questa guerra vanno ben oltre l'estensione di Gaza e della regione. Le implicazioni di questa guerra vanno oltre i confini dello spazio e del tempo”. E gode per l'aumento dei musulmani, a suo dire, e cioè dei convertiti grazie a questa guerra che secondo lui non ha eguali nella storia, come con le prime guerre islamiche.
Vi diranno che lui non rappresenta davvero Hamas. Vediamo se vi bastano allora le parole di Yahya Sinwar, il capo di Hamas quando questa guerra iniziò (ucciso alla fine dello scorso anno). In una corrispondenza dopo il 7 ottobre visionata e verificata in modo indipendente dal Wall Street Journal, il terrorista parlava così: i civili palestinesi sono “sacrifici necessari”, le morti avrebbero “infuso vita nelle vene di questa nazione, spingendola a elevarsi alla sua gloria e al suo onore”. Questa è ciò che vogliamo chiamare resistenza? Ora sono usciti anche dei dossier israeliani visionati dal Wall Street Journal che dimostrerebbero il vero obiettivo dell'attacco del 7 ottobre: minare gli accordi tra Israele e Arabia Saudita, che avrebbero potuto costituire la premessa per una pacificazione (su base economica) in quei territori. Hamas avrebbe ricevuto centinaia di milioni di dollari direttamente dall’Iran (uno Stato terrorista) per poter organizzare questa nuova fase della guerra, questa “razzia benedetta”. A chi dice che questo è un massacro e non una guerra perché non esistono eserciti o Paesi in lotta tra loro ma solo uno Stato contro i civili palestinesi: come giustificate tutto questo? Il motivo del 7 ottobre non era difendere il popolo palestinese dalle aggressioni israeliane, lo dimostrano sicuramente le parole dei rappresentanti di Hamas, probabilmente anche i documenti in mano a Israele che il Wall Street Journal ha visionato.

Mentre si rincorre il massimalismo, un buon liberale credo debba saper condannare Netanyahu, il massacro, le sproporzioni, i crimini di guerra, le occupazioni in Cisgiordania, tenendo conto delle evidenze, delle falsità raccontate dall'Idf, dalle inchieste sull'uso di bambini come scudi umani nei tunnel o in edifici a rischio, delle verifiche del New York Times sul tentativo di insabbiare l'esecuzione arbitraria di soccorritori ben riconoscibili (l'Idf diceva che invece non avevano capito bene chi fossero). Come i colpi di fucile contro i bambini, ormai un anno fa, che si accalcavano intorno a un camion con le provviste, così anche i colpi di fucile di queste ore vanno condannati. Ma un liberale dovrebbe stare con Israele. Non solo perché il pogrom del 7 ottobre si inserisce in una guerra contro l'Occidente e le democrazie sul modello delle “razzie benedette” che da Maometto a oggi hanno l'obiettivo di destabilizzare le società per islamizzarle, ma perché il terrorismo palestinese, il modello Hamas e il modello della prima Intifada, il terrorismo dei suicidi, ha ispirato l'11 settembre ed è diventato il modello del terrorismo del XXI secolo. Le sue radici sono profonde e non hanno nulla a che vedere, come vorrebbero alcuni intellettuali postmarxisti delle nostre parti, con una presunta “resistenza” all’occupazione israeliana, a meno che non si intenda con “occupazione” il fatto che degli infedeli occupino un territorio che è stata dato da Dio ai musulmani fino alla fine dei tempi (si leggeva questo nel manifesto di Hamas al momento della fondazione).
La Palestina libera dal fiume al mare è questo, è la distruzione di uno Stato di infedeli all'interno di un territorio che fu del grande Impero Ottomano. Abbastanza ridicolo, poi, credere che si possa davvero parlare di “resistenza”. Houthi (Yemen), Hamas (Gaza), Iran, Hezbollah (Libano). Non è la resistenza degli ultimi, ma la guerra dei fondamentalisti, appoggiati e finanziati da Stati. Il problema è che stanno incontrando, in questa guerra, il “favore” di un governo israeliano sostanzialmente fondamentalista quanto loro. E il risultato è una guerra “a tema libero”, che da guerra giusta, cioè, si è trasformata in pochi mesi in una guerra di Netanyahu, utile soprattutto a non farlo finire in carcere dopo la caduta, che tutti davano per certa, del suo governo. A Israele si manifesta contro Bibi così come a Gaza si manifesta contro Hamas. Credere che qualcuno, a questo punto della guerra, stia facendo gli interessi degli ultimi è sciocco. E desiderare che uno di questi attori, Hamas, possa essere lasciato dov'è, che tutta la fatica debba farla Israele, ritirandosi e aprendo alla soluzione a due Stati, vuol dire desiderare, più o meno consapevolmente, quel che Salman Rushdie ha definito la creazione di uno “Stato talebano”, di tagliagole, dove non c'è spazio per i diritti, per le libertà, per niente.

Cosa significa allora stare con Israele? Prima di tutto significa andare oltre la tragedia di questi mesi e riconoscere la genealogia dei massacri, dall’antisemitismo arabo (di cui ha parlato ampiamente lo storico Georges Bensoussan) alla volontà di conquista, su base religiosa, di qualsiasi territorio. Non solo Israele, ma il mondo occidentale. Non è catastrofismo, ma una strategia precisa, quella della cosiddetta “dolce conquista”, attraverso finanziamenti e indottrinamento. Chi gioisce per la vittoria del Paris Saint-Germain conosce la matrice dei finanziamenti e degli investimenti qatarioti, gli obiettivi, chi siano i Fratelli musulmani, cosa sia la Jihad? Facciamo un passo avanti. A fine maggio Le Figaro ha diffuso il contenuto di un dossier di 73 pagine commissionato dai ministeri dell’Interno, degli Esteri e della Difesa francesi, Les Frères musulmans et islamisme politique en France, in cui si dimostra il livello gravissimo di infiltrazione in Francia di gruppi che puntano a convertire, dall’interno, la società francese. Lo stesso accade in Germania, Usa, Belgio, Regno Unito, Italia. Scuole, social media, emittenti, luoghi di culto, quartieri. Esattamente ciò che accade a Gaza ma su vastissima scala. Appunto, come spiega lo storico Gilles Kepel, un modello, quello del terrorismo arabo-palestinese, per il terrorismo su scala planetaria. E ora che si è evoluto, divenendo più sottile sul piano comunicativo, anche la sharia internazionale si evolve e sfrutta strumenti diversificati, dai soldi (per esempio nel calcio) agli studi accademici sul Medio Oriente.
È per questo che, per condannare Israele, è fondamentale non piegarsi alla retorica sul nuovo Reich, del nuovo nazismo, del genocidio. Bisogna riconoscere i segni di una storia violenta e aggressiva che viene completamente e sistematicamente cancellata a fare di un cronachismo di basso livello, sostanzialmente ideologico, impegnato nella contraffazione della visione del mondo occidentale in favore di un’alternativa che oggi è sinonimo di oppressione, stigmatizzazione, discriminazione sistemica; tutto ciò che gli attivisti imputano all’Occidente. L’intento ideologico, e non “umanitario”, delle proteste pro-Pal è evidente anche analizzando le dichiarazioni dei nuovi guru. Prendiamo Francesca Albanese, che sostiene a Le iene che il genocidio in corso a Gaza non sia un’opinione ma un fatto. Poco dopo spiega che il consenso è chiaro tra gli esperti (il riferimento è probabilmente a un singolo articolo in cui si riporta l’opinione di sette, sette!, studiosi di genocidio). Francesca Albanese è arrivata prima della Corte Penale Internazionale, che ancora non ha condannato Israele (e che non chiese a Netanyahu di fermare la guerra tra l’altro), nonostante la denuncia da parte del Sud Africa, Paese da decenni antisraeliano. Un caso che a sfruttare questo termine, fin dall’inizio, siano stati Paesi geopoliticamente e culturalmente avversi a Israele e all’Occidente? Chi, di fronte all’impossibilità di convincere la Corte Penale Internazionale già l’anno scorso, voleva comunque invalidare moralmente Israele, ha cercato persino di inventare definizioni diverse di genocidio rispetto a quella attualmente condivisa. Lo ha fatto Amnesty. Lo ha fatto il governo irlandese. Il punto non è la preoccupazione per un genocidio, ma la necessità di adattare questo termine a quel che sta accadendo, così da distruggere completamente la reputazione israeliana (reputazione che Israele stesso, genocidio o meno, sta minando per colpa di questo governo).

Potremmo continuare all’infinito. Notando per esempio che a poche ore dall’attacco del 7 ottobre era già uscito un comunicato dei gruppi universitari filopalestinesi americani, firmato e perfettamente redatto dalle varie sezioni distribuite in diverse città, in cui si rivendicava l’attacco come eroico gesto di resistenza contro l’entità sionista (che tempismo, eh? Sono stait velocissimi). O notando che fin dal secondo giorno si è puntata l’attenzione sull’escalation israeliana. Non oggi, dopo 50mila morti (tra cui terroristi), ma l’8 ottobre. Si sapeva già da che parte stare, era già invalidato l’attacco di Israele. Una tendenza, questa, che definire semplicemente antisionista è riduttivo. E non perché tutto debba essere considerato antisemitismo, come sostiene Netanyahu, ma perché non è vero neanche il contrario, e cioè che ogni critica sia legittima, puntuale. Ma perché si tratta di una forma di debolezza intellettuale che in tanti, da Martin Amis a Jean Birnbaum, hanno notato, e cioè quella precisa inclinazione della sinistra ad appoggiare il mondo arabo-musulmano, visto per altro come sacca di voti nei quartieri abbandonati dalla sinistra.
Torniamo però all’inizio, e cioè a una condanna che sia chiara ma non simmetrica, equilibrata, neutrale. Ora chi si fa sentire di più è chi condanna solo Israele, di Hamas si sono scordati. Contro questa tendenza non si deve chiedere un equilibrio intellettuale in nome del pacifismo, che cancella ogni differenza tra gli attori in causa in nome della cessazione di ogni violenza. Serve chiedere una pace che porti alla condanna di un governo, da un lato, e di un sistema, quello terroristico, dall’altro, che si è innervato completamente nella società palestinese, al punto che i palestinesi stessi, stanchi, oggi protestano non solo contro Israele, ma contro Hamas (dimostrando come, in un momento di fragilità, i colpevoli vengano additati senza nascondersi più per via delle minacce di morte e torture a cui i terroristi hanno abituato i civili). Su questo l’Occidente deve essere chiaro, ponendosi come mediatore. Ma mediatore non significa porsi sulla media dei dibattiti, a metà strada tra uno Stato e un gruppo terroristico.
