Il grande classico, la grande tradizione vintage ma sempre attuale non sono i dischi in vinile o i mixtape ma ubriacarsi drogarsi e collassare a Pasquetta. Era il nostro springbreak, la nostra festa di Persefone, il nostro rituale stagionale, il nostro tap tap sui lombi dei mesi a seguire, di mattinate primaverili, tramonti allungati e in fondo, laggiù, la Perdizione Estiva. Si arrivava in campagna coi motorini e le moto e le macchine, si trovava un posto non troppo affollato, e la legna e la carne (e le canne) e la birra (calda) e il vino e gli amari, qualche virtuoso fortunato trovava un ruscello per mettere in fresco una bottiglia. Posate di plastica, perché non c’era tutta ‘sta tecnicità di oggi, i coltellini da trapper, le posate da campeggio a 50 euri la coppia. Qualcuno metteva, sempre, un piede nel fuoco mentre cercava di sistemare la legna a falò acceso. Il fastidio della scheggia incandescente che si infila tra bordo delle sneakers e calzino. Tirarla fuori con le dita e bruciarsi le dita. E dopo mangiato in un modo o nell’altro collassare. Le orecchie ronzano, le voci si allontanano, la testa sull’erba. l’immaginazione vola. Ci si svegliava a pomeriggio inoltrato. Bocca impastata. Si cercava un caffè o direttamente un ammazzacaffè.
Allora non si sapeva e adesso si sa, che tutto quello che facciamo non lo facciamo veramente noi. Tutto quello che facciamo è già successo. Sono sentieri già battuti.
I rituali di Primavera sono cose antichissime, vanno avanti da secoli e generazioni, sempre più o meno uguali: sugli altopiani dell’Argolide mille anni prima di Cristo, in qualche campagna umbra al tempo di Francesco D’Assisi o -nei giorni di pausa tra una mitragliata e l’altra- in mezzo a una trincea del Carso nel 1916.
Cambiano le epoche, i nomi, le sostanze usate, la divinità venerata. Ma sono dettagli insignificanti. In qualche luogo qualcuno in quel momento (Primavera) ha sempre portato avanti quel genere di festa, che non siamo stati noi non cambia francamente un cazzo. Perché la felicità è dimenticarsi.
E questo è il Paradiso.
Ma prima del Paradiso che c’è? C’è l’abisso. Che cade, di preciso, tra ieri e oggi, e finisce domani.
Il Paradiso si capisce da sempre, l’abisso si capisce da vecchi.
Tipo ieri era Venerdì Santo ed ero a Piacenza, veniva giù un’acqua gelata, fina, che si infilava nel colletto. Sono arrivato alla Chiesa di San Rocchino, una delle poche in Italia dove c’è la messa in latino, quella di San Pio V.
Lì ci sono i preti vestiti di nero. Francesi (i preti italiani ormai sono vestiti da prof di educazione fisica che spacciano ai giardinetti) con i paramenti viola e rossi e gialli, i quadri del Seicento, le candele di cera, l’incenso, i confessionali scuri, gli inginocchiatoi comodi, le statue barocche.
San Rocchino mi ha fatto sempre pensare a quello che scriveva Thomas Mann sul Cattolicesimo. È la religione che vuole circondare tutti i sensi, la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto, il gusto con la magnificenza di Dio; che usa quadri meravigliosi, canti antichi inverosimili, profumi, atti magici in cui si toccano oggetti, sapori di dolci rituali, per prendere chi si avvicina per incantamento. Una religione che non è basata sulla parola, semmai sul Verbo Incarnato, sulla carne. Niente pensiero, un mare di sensazioni.
Bene, sono arrivato a San Rocchino e non c’era niente. Sembrava una chiesa abbandonata nei campi, di quelle che piacciono alla mia amica Sara Smolly, appassionata di Urbex, con l’erba secca sull’altare e le ragnatele alle vetrate (rotte). I quadri grossi erano coperti da drappi viola, quelli piccoli non c’erano. Scomparse anche le statue piccole, quelle grosse coperte. I crocefissi coperti da drappi neri. Sembrava saccheggiata. C’era appena stato l’Ufficio delle Tenebre.
Mi sono fatto un giro. Ho fatto una foto. L’ho messa su Instagram. Già. Il Venerdì Santo.
Ecco, l’altra cosa del Cattolicesimo è che è una religione tragica. È l’unica che racconta la morte di Dio, che avviene appunto di venerdì, in questo venerdì. Chi prega perché ha problemi e perché vuole qualcosa in cambio farebbe meglio a ricordarsi che prega uno che è stato ammazzato. Come garanzia che andrà tutto bene forse meglio farsi una polizza assicurativa.
Chi prega per sentirsi meglio degli altri farebbe bene a ricordarsi che prega uno che è stato condannato come bestemmiatore alla morte più infamante. I romani erano scandalizzati e furiosamente incazzati con i primi cristiani proprio perché veneravano un tale giustiziato in Croce, un delinquente. A chi era abituato a Giove, Giunone, Marte, Nettuno, imbroglionissimi, ma altissimi e gloriosi doveva sembrare una mostruosità. Lo è.
Chi prega in generale farebbe bene a ricordarsi del santo più assurdo del mondo, che è anche il più importante del mondo. Si festeggia nel giorno della morte di Cristo, di solito viene chiamato Dismas. È il ladrone -in greco kakourgos, malfattore, quindi ladro assassino ecc- che mentre stanno in Croce si rivolge a Cristo. È l’unico in tutto il racconto del Vangelo che si permette di chiamarlo “Gesù”, senza titoli onorifici come “padre”, “cristo”, eccetera. Ed è l’unico in tutto il Vangelo a cui Cristo dice che andrà in Paradiso. Ma appunto il Paradiso si capisce da sempre, e il ladrone l’ha capito.
E infatti tutti i Padri della Chiesa nei loro scritti esaltano questo Dismas. San Fulgenzio: “Violento nel mondo, violento nel premio”. San Giovanni Crisostomo: “Predatore e ladro del Paradiso. Secondo la tradizione siriaca chi arriva in Paradiso non ci trova Pietro, ma Dismas, che sarebbe stato il primo ad entrarci, dopo aver picchiato l’Angelo che custodiva l’ingresso.
Tutte queste assurdità, questi paradossi tragici, queste cose che non si dicono, del Cattolicesimo sono custodite nel Venerdì Santo. Non si vedono ma ci sono. È chiarissimo, in questa chiesa vuota.
E poi a casa in Tv c’era la Via Crucis con le meditazioni del Papa, che per fortuna stavolta non hanno affrontato problemi sociali, dei quali non mi interesso. Ma alla Via Crucis il Papa non c’era perché non sta bene. E anche qui c’è qualcosa che non si vede, ma c’è. Io aspetto solo di potermi devastare a Pasqua e collassare a Pasquetta.