Sono trascorsi quasi trentatré anni dall’omicidio di Simonetta Cesaroni, consumatosi il 7 agosto del 1990 in una Roma quasi completamente deserta. Altro non era che un caldo pomeriggio d’estate qualunque, prima che venisse compiuto uno dei crimini più famosi in Italia, meglio conosciuto nell’immaginario collettivo come il delitto di via Poma. Una realtà processuale che come purtroppo spesso accade non ha portato a nulla e, a distanza di tanti anni, ancora non si conosce il volto dell’assassino di Simonetta. Ma cosa successe davvero? 21 anni e un futuro tutto da scrivere, quel giorno si reca a lavoro in metro, nell’ufficio regionale dell’Associazione italiana alberghi per la gioventù, sito in via Carlo Poma numero 2 dove lavorava da qualche mese come contabile. Nessuno sembra notarla durante il tragitto. L’ultima traccia è la telefonata con una collega intorno alle 17.30, alla quale chiese spiegazioni su un codice del programma di contabilità. Al tempo le chiamate non venivano registrate, per cui bisogna fidarsi della testimonianza della persona che dice di aver ricevuto la telefonata. Apparentemente l’ultima a parlare con Simonetta prima dell’omicidio. Quello che accadde dopo è possibile dedurlo solo dalla scena del crimine. Qualcuno deve averla raggiunta in ufficio, ed è lei stessa ad aprire la porta. Niente spioncino da cui poter osservare chi c’è dall’altra parte, ma tutto lascia pensare che Simonetta conoscesse il suo assassino. La sua famiglia, intorno all’ora di cena, non vedendola arrivare inizia a preoccuparsi. La sorella, insieme al fidanzato e Salvatore Volponi, datore di lavoro di Simonetta, si recano nell’ufficio di via Poma. Trovano la porta chiusa dall’esterno, a più mandate, che aprono con le chiavi della portineria. All’interno si imbattono nel corpo riverso sul pavimento con indosso i calzini, la canottiera arrotolata sul collo e il reggiseno calato. Un crimine particolarmente efferato: sul cadavere le ferite di ben 29 coltellate nella zona degli organi genitali e il segno di un morso sul seno. Una violenza inaudita, ma ad ucciderla è stato il trauma alla testa. Nessuna traccia degli altri vestiti: l’assassino deve averli portati via con sé, dopo averli utilizzati per pulire, senza farsi notare. Forse. Sul volto di Simonetta altre ecchimosi provocate dai diversi colpi ricevuti. Secondo quanto stabilito dal medico legale non ci sarebbe stata nessuna violenza sessuale, anche se il colpevole potrebbe aver tentato di stuprarla senza riuscirci. Il posizionamento delle ferite sul corpo lascia intendere da subito che comunque si tratti di un omicidio a sfondo sessuale. Le stanze erano in ordine, il pavimento pulito senza nessuna traccia di sangue, tranne che sulla maniglia della porta. L’arma del delitto, si suppose un tagliacarte, non è stata mai ritrovata. Tanta incertezza anche sull’ora del delitto: l’ipotesi al tempo era che l'omicidio fosse avvenuto tra le 18 e le 19.
Trascorrono due giorni e le indagini sembrano condurre dritte al portiere dello stabile, Pietrino Vanacore. La sua versione sembra non convincere gli investigatori ma contro di lui non ci sono prove, anzi, le analisi scientifiche finiscono per demolire la tesi presentata dall’accusa. Alibi? Uno scontrino collocherà Vanacore in un ferramenta alle 17.25, e verso le 22.30 si sarebbe recato a casa dell’architetto Cesare Valle residente nello stabile. Nel 1992 Roland Voller, racconta di aver conosciuto Giuliana Valle, ex moglie di Raniero Valle, che a sua volta gli avrebbe confidato la sua preoccupazione nei confronti del figlio Federico, che quel 7 agosto sarebbe rientrato a casa ferito e coperto di sangue. In seguito, la donna smentirà quanto detto da Voller, che si scoprirà essere un informatore della polizia. Da dove nasce l‘ipotesi del coinvolgimento di Federico Valle, nipote dell'architetto? Il ragazzo sarebbe stato geloso di una fantomatica relazione del padre con Simonetta, che dal canto suo racconta di essere rimasto tutto il giorno in casa per via del caldo. Durante i primi anni 2000 vengono condotti nuovi esami, tra cui il test del DNA sugli oggetti appartenuti a Simonetta. Sul reggiseno viene trovato il DNA del fidanzato, Ranieri Busco. Non solo, la sua impronta dentale corrisponderebbe al segno del morso sul seno della giovane. E non sarebbe poi tanto strano, se si pensa che i due hanno avuto rapporti nei giorni precedenti l’assassinio. Ciò nonostante, Busco diventa automaticamente il sospettato numero uno. Siamo nel 2011 quando, dopo due anni di processo, arriva per lui la condanna a 24 anni di carcere con l’accusa di omicidio. Sentenza che nel 2014 viene ribaltata in Cassazione, che lo assolve in via definitiva. Tuttavia, durante questo arco processuale si conta un’altra tragedia: il suicidio di Pietrino Vanacore nel 2010, che si porta così i suoi segreti nella tomba. L’uomo, a distanza di soli 3 giorni dal momento in cui sarebbe dovuto andare a deporre in aula contro Busco, si suicida lasciandosi annegare in mare scrivendo prima un biglietto: “20 anni di sofferenza e sospetti portano al suicidio. Lasciate almeno in pace la mia famiglia”. Ci si chiede cosa potesse celarsi realmente dietro questo gesto, o se il suicidio altro non fosse che una copertura. Molte le ipotesi che si sono succedute nel corso degli anni, tra cui quella che chiamava in causa un possibile coinvolgimento da parte dei servizi segreti. Via Poma altro non sarebbe stata una base dei servizi e, l’azienda in cui lavorava Simonetta una copertura fittizzia. A sostegno di questa tesi il sospetto che Roland Voller fosse in possesso di carte segrete a proposito del delitto dell’Olgiata, avvenuto un anno dopo la morte di Simonetta, a dimostrazione dei suoi rapporti con il Sismi (Servizio per le informazioni e la sicurezza militare). Come per il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi anche per l’omicidio di Simonetta si è vagliata l’ipotesi che ci fosse di mezzo la Banda della Magliana, e che l’azienda per cui lavorava la ragazza intrattenesse degli affari edili proprio con l’organizzazione criminale romana. Che Simonetta abbia visto qualcosa che in realtà non doveva vedere?
Nel marzo del 2022, trentadue anni dopo l’omicidio, le indagini sul delitto di via Poma ripartono con tanto di un super-sospettato con gruppo sanguigno A positivo. Dopo un anno dalla Procura di Roma poco o nulla è trapelato sulla riapertura del caso. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbero nuovi elementi mai comparsi prima durante le inchieste. L’assassino, dopo aver commesso il crimine, sarebbe fuggito per una scala secondaria. L’uomo avrebbe poi chiesto l’aiuto di un altro sospettato: un alto funzionario dello Stato che, depistando le indagini grazie alle sue conoscenze, l’avrebbe protetto. Si tratterebbe quindi di persone che sapevano bene come muoversi in simili circostanze. Gli investigatori inoltre stanno svolgendo una serie di analisi perché non sarebbero convinti dell’orario della morte, ma che Simonetta sia stata uccisa almeno un'ora prima, intorno alle 16.30, e non con un tagliacarte, ma con un pugnale. Questa ipotesi escluderebbe quindi l'esistenza della telefonata alla collega. A distanza di trentatré anni la domanda resta sempre la stessa: chi è l’assassino di Simonetta Cesaroni? Fu una sola persona a commettere il delitto o più di una? Una delle poche, possibili certezze, è che Simonetta conoscesse chi le ha brutalmente tolto la vita quel drammatico pomeriggio del 7 agosto 1990. È stata lei ad aprirgli la porta, cosa sia successo dopo, nelle mura dell’ufficio in cui lavorava, per assurdo che sia, ancora non ci è dato saperlo. Più di trent’anni trascorsi tra mille misteri.