Il 21 settembre si è tenuto un raduno particolare, un incontro che ha fuso politica e fede cristiana evangelica, per commemorare la memoria di Charlie Kirk. Almeno questo era il messaggio che si voleva far passare. Come fedele che ha frequentato la chiesa evangelica negli Stati Uniti per tre anni, conosco bene la cultura di questa comunità e so quanto siano sentite la preghiera, i canti e il ricordo collettivo. È una celebrazione di spiritualità e unità. Tuttavia, voglio invitare i lettori a riflettere anche su un aspetto più complesso e delicato. Per quanto sia bello vedere questa rinascita spirituale, è anche un’arma a doppio taglio mescolare così strettamente la religione con la politica. È rischioso, perché in questo momento, a mio parere, Trump sta perdendo il sostegno di molti conservatori MAGA, inclusi amici come Marjorie Greene, Candace Owens, Tucker Carlson e lo stesso Charlie Kirk, proprio perché continua a finanziare Netanyahu e la sua guerra contro i civili di Gaza, tradendo la promessa di porre fine a tutti i conflitti. Per questo, la mia sensazione è che ciò di cui abbiamo realmente assistito era un qualcosa che assomigliava più a una spettacolarizzazione del dolore che a un vero momento di raccoglimento. È vero: culture diverse reagiscono al lutto in modi diversi. Ma resta difficile non notare come, a pochissimi giorni dalla sua morte, sia stato organizzato un memoriale che pareva più uno show politico e religioso che una commemorazione sobria e rispettosa. Da evangelica, e conoscendo bene la cultura evangelica americana, non posso fare a meno di trovarlo strano. Vedere la moglie di Kirk con unghie e trucco perfetti mi lascia perplessa: forse è una donna di ferro, forse qualcuno si è occupato di lei, ma quel dettaglio delle unghie curate, in un contesto simile, stona. Personalmente sarei devastata se perdessi mio marito in quel modo, ucciso da un ragazzo armato, ma soprattutto per colpa di una sicurezza che, dopo il tentato assassinio di Donald Trump a Butler in Pennsylvania, non ha ancora imparato a controllare i tetti e a mettere in sicurezza le zone sensibili in un periodo così delicato per l’America. Certo, ognuno affronta il dolore a modo suo. Ma nella mia cultura, chi ama davvero non pensa al trucco o alle apparenze: lascia far scorrere le lacrime, perché piangere fa bene, è umano, è sincero.

Ed è qui che voglio arrivare: dietro a tutta questa apparente positività “in nome di Gesù” si nasconde un pericolo enorme. La fede non dovrebbe mai diventare uno strumento politico. Usare il nome di Cristo per recuperare voti significa tradirne il messaggio, alimentando divisioni e perfino islamofobia. Non si può trasformare il ricordo di un uomo in un palcoscenico elettorale. E questo non è un caso: la religione, nella storia, è stata spesso utilizzata come strumento per giustificare guerre e alimentare conflitti. Si accendono gli animi cristiani e patriottici americani contro un nemico, costruendo la solita narrativa già usata infinite volte. Il rischio, oggi, è che dietro a questo tipo di spettacolarizzazione ci sia un piano ben preciso: creare le condizioni per una nuova guerra ideologica, presentata come uno scontro tra cristiani e islamici. Per molti fanatici, da una parte e dall’altra, questa potrebbe sembrare una giustificazione accettabile, trasformando il dolore in un’arma e la fede in un pretesto per la violenza. Se Trump vuole davvero recuperare credibilità, l’unica scelta possibile è smettere di finanziare Israele e la sua guerra. Quei cristiani che ieri sera cantavano in nome di Gesù devono ricordarsi chi era davvero Gesù: non un politico né un uomo di potere, ma colui che stava con i poveri e con gli oppressi. Se scegliamo Cristo, allora dobbiamo stare dalla parte di chi ha perso la casa, di chi ha i figli sepolti sotto le macerie, non con chi guadagna denaro sporco dal sangue degli innocenti e dal nostro silenzio. Non si possono servire Cristo e Cesare allo stesso tempo.
