Il caso sarà riaperto. Per la terza volta e, probabilmente, con qualche attenzione in più, soprattutto adesso che è diventato mediatico. Sì, l’indagine sulla morte di David Rossi, il responsabile della comunicazione di MPS, avvenuta nel marzo del 2013, potrebbe diventare “il nuovo Garlasco”. Perché sono tante, tante davvero, le cose che non tornano. Perché ci sono intrecci che toccano la società. E perché c’è una famiglia – o, meglio, ci sono una moglie e una figlia, Antonella Tognazzi e Carolina Orlandi - che non s’è mai arresa a due archiviazioni. Adesso, per la prima volta, la parola “omicidio” viene pronunciata ufficialmente da un organo istituzionale. A usarla – come già anticipato da Le Iene - è Gianluca Vinci, presidente della seconda Commissione parlamentare d’inchiesta, alla luce delle nuove analisi illustrate dal tenente colonnello dei Ris Adolfo Gregori e dal medico legale Robbi Manghi.
Secondo la nuova perizia, basata anche su un ulteriore sopralluogo nel vicolo dove fu ritrovato il corpo, la dinamica della caduta e soprattutto le ferite al polso sinistro dell’allora responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi di Siena aprono scenari radicalmente diversi rispetto alle conclusioni giudiziarie del passato. Rossi entrò in banca senza lesioni, ma al momento del ritrovamento presentava tre profonde lacerazioni al polso, si dice oggi. La revisione del filmato effettuata dai Ris mostra che la cassa dell’orologio si separa dal cinturino, cadendo in momenti differenti, segno che il polso era già gravemente lesionato prima dell’impatto con il suolo. Il colonnello Gregori ha parlato davanti alla Commissione di un elemento ritenuto decisivo: “Quando David Rossi è caduto nel vuoto, qualcuno lo teneva per il polso sinistro. Lo sosteneva dal balcone, almeno negli ultimi istanti”. Sarebbe stata proprio questa trazione a generare le ferite e a far staccare l’orologio. Un’ipotesi che coincide con una simulazione tecnica indipendente, diffusa dal programma Le Iene, secondo cui la caduta non sarebbe compatibile con un gesto volontario. Da qui la richiesta della famiglia, espressa dalla figlia della moglie di Rossi, Carolina Orlandi, di riaprire le indagini.
Ma perché quel caso è stato archiviato per ben due volte, tra l’altro mettendo –oltre a altro – a fondamento di quelle archiviazioni proprio un racconto della moglie e della figlia di Rossi? Senza scomodare complottismi o loschi giri, la certezza è una: le precedenti archiviazioni si fondavano su una lettura opposta degli elementi disponibili. I magistrati avevano ritenuto che non vi fossero segni di colluttazione o aggressione nell’ufficio di Rossi, trovato in perfetto ordine sia nel sopralluogo immediato della polizia, sia nei rilievi fotografici successivi. L’assenza di tracce di violenza era stata considerata un punto decisivo a sostegno dell’ipotesi suicidaria. A questo si aggiungeva la presenza delle tre lettere di commiato, incomplete e cestinate, interpretate come manifestazioni della volontà di togliersi la vita. Lettere in cui, però, Rossi si rivolgeva alla moglie chiamandola “Toni”. “Un nomignolo – dirà poi la donna – che David non avrebbe usato, visto che sapeva che proprio non mi piaceva”. L’argomento difensivo proposto proprio dai legali delle due donne, che si sono sempre opposte alle richiesta di archiviazione — secondo cui la scelta di gettare i biglietti indicherebbe un ripensamento — era stato ritenuto debole dai giudici, i quali avevano attribuito quei fogli strappati alla difficoltà emotiva di trovare parole “giuste” prima dell’atto estremo.
Le indagini avevano inoltre ricostruito il crescente stato d’ansia di Rossi nelle settimane precedenti. Le testimonianze del direttore generale Viola e del manager Mingrone descrivono un uomo profondamente turbato dalla perquisizione subita e dal timore di essere coinvolto nell’inchiesta che riguardava l’ex presidente Mussari. Rossi temeva di essere considerato poco leale dal nuovo management, di poter essere sostituito o licenziato; la sua apprensione fu notata anche durante una cena con Profumo e Mingrone, pochi giorni prima della morte. E dal fratello, a cui poche ore prima di morire aveva detto di “temere di aver fatto una cavolata”.
Ma nella valutazione dei magistrati – scritto a chiare lettere nell’ordinanza dell’archiviazione – c’è anche altro. E è qualcosa che ebbe un peso significativo nell’archiviazione: il racconto di “taglietti” ai polsi scoperti da Carolina Orlandi. Rossi, messo alle strette, ammise che se li era procurati volontariamente, dando una spiegazione inquietante: provare del dolore riporta sulla terra. “Alle richieste di spiegazioni – riporta l’ordinanza - prima aveva detto di essersi accidentalmente tagliato con la carta, ma dietro le insistenze della moglie aveva ammesso di esserseli procurati volontariamente dicendo, così nei ricordi della vedova, ‘hai visto, nei momenti di nervosismo, quando vuoi sentire dolore fisico per essere più cosciente’ e nella rievocazione della Orlandi: ‘…sai com’è quando uno ha quei momenti in cui perde la testa per ritornare alla realtà ha bisogno di sentire dolore’”. Un modo, si legge quindi, per “sentire dolore fisico per essere più cosciente” nei momenti di nervosismo. In quella stessa giornata, sempre stando a quanto riferito dalla moglie di Rossi e dalla figlia, aveva comunicato con la famiglia solo per iscritto, attraverso bigliettini, ossessionato dal timore di essere intercettato. Insomma, elementi che, in effetti, raccontano di un uomo che comunque stava vivendo un momento particolarmente critico e di scarsa lucidità. Se quel momento sia stato così tanto critico e di così scarsa criticità da scatenare un suicidio, come sostenuto nelle due archiviazioni precedenti, però, dovranno ora stabilirlo nuovi magistraturi con la nuova indagine.