Chiamatela immedesimazione, chiamatela identificazione per destino o, più semplicemente, fiato sul collo rispetto a una svolta che sta per arrivare senza capire in quale direzione, ma Andrea Sempio sembra un altro Andrea Sempio. L’intervista di dieci minuti concessa a Alessandro Sallusti arriva in un momento delicatissimo dell’inchiesta riaperta sull’omicidio di Chiara Poggi e restituisce l’immagine di una strategia comunicativa che sembra essersi spostata, tutt’altro che impercettibilmente, dalla difesa tecnica alla narrazione esistenziale. “Non ho ucciso io Chiara Poggi – ha detto, lasciando di fatto intendere tutto e il contrario di tutto - penso che a mano a mano si chiarirà ogni cosa. Più che dire la verità non posso fare”. Quello che viene da chiedersi, però, è se la verità la dice tutta. O se c’è qualcosa che resta inconfessabile e che, paradossalmente, fa quasi più paura della possibilità di finire i propri giorni in galera. Qualcosa che, in qualche modo e per i più maliziosi, lo accomuna a Alberto Stasi. Ecco, è proprio su Stasi che si vede il nuovo Sempio. “L’idea che possa essere in galera da innocente stimola delle riflessioni – ammette - Mi chiedo: e se succedesse anche a me?” È una domanda intima che pesa. E che si fa notare. Perché segna una distanza netta rispetto al passato. Perché nasce mentre l’indagine si avvicina a tre esiti possibili: l’archiviazione, un rinvio a giudizio che aprirebbe un processo potenzialmente devastante, oppure una svolta capace di spostare l’attenzione su figure finora rimaste ai margini.
“Che mettano in dubbio il fatto che Alberto Stasi possa essere innocente ti fa riflettere e dire: ok, e se mi trovassi in una stessa condizione?- si chiede ancora - Io sto rischiando di andare verso quella condizione”. Non è una solidarietà esplicita, ma, appunto, una identificazione per destino. Come se la paura non fosse più astratta, ma nominabile. Solo su MOW ci vediamo il linguaggio di chi sente di aver già pagato un prezzo altissimo e sente che il conto non sia ancora chiuso? Non significa empatizzare con Sempio. Non significa pensare che sia innocente. Non significa stare da una parte piuttosto che da un'altra, dimenticando che nel mezzo c’è una ragazza morta ammazzata. Significa lasciarsi aperti ai dubbi. Anche in negativo rispetto alla verità. Con il tempo privato, intanto, che resta sospeso. “Passerò le feste con la mia famiglia – racconta ancora - cercheremo di passarlo il meglio possibile, però ovviamente non si riesce tanto a distogliere la testa dal fatto che hai sempre questa tegola dietro. Anche nel 2016 era quasi Natale. Sta diventando un po’ una ricorrenza, diciamo. C’è poco da dire: andiamo avanti. Tutti i giorni arriva una notizia o qualcuno che scrive su Internet, qualcuno che ci manda lettere dove ci sono insulti, minacce e abbiamo il nostro plotone di giornalisti sempre davanti a casa. Non possiamo fare nulla per difendermi in qualche modo”.
Dalla famiglia alle amicizie, il passo è diventato breve. E, inevitabilmente, anche il racconto di come s’è trasformato e cosa è oggi il rapporto con Marco poggi. Sempio ammette che Marco Poggi “è ancora un mio amico” e che “restiamo amici”, ricordando come “probabilmente negli anni credo tra il 2005 e il 2007… l’amicizia tra me e lui è diventata più forte”. I contatti con la famiglia Poggi, invece, non ci sono: “Non mi è ancora capitato di incontrarli in giro. I miei genitori so che li incontrano abbastanza spesso al supermercato che abbiamo proprio davanti a casa”. Altri amici non li nomina, se non la sua legale Angela Taccia: “assolutamente una mia grande amica, abbiamo un rapporto che è fraterno”. E anche questo significa tanto.
Sul fronte delle intercettazioni e dei materiali sequestrati, invece, Sempio prova a sottrarre quei frammenti a una lettura definitiva. Della conversazione sul maschio alfa dice che “io parlavo della teoria del maschio alfa, che secondo me è una cavolata”. Dei diari spiega che “ho riversato magari le emozioni più negative” e che “è un po’ come fare una seduta dallo psicologo con sé stesso”. Anche la frase più inquietante viene ridimensionata, “ho fatto delle cose talmente brutte che nessuno può immaginare”, chiarendo che era “scritto al termine di una giornata in cui erano successe diverse cose” e che “era stata una giornata di caos”. Prova, insomma, a descriversi come un ragazzo con relazioni normalissime, arrivando a scoprire anche un po’ di più della sua vita privata, visto che nella narrazione è finito dipinto come un solitario, uno incapace di un amore e di una relazione stabile. “Sono stato amato, sono amato tutt’oggi – svela – C’è un legame duraturo, ma non sono fidanzato. Non mi interessa se questo presta il fianco a dipingermi in modi strani. Va bene, tirino addosso a me quello che vogliono”.
Cosa resta? Resta, al di là di quello che stabiliranno i magistrati, il filtro dell’umanità. Che non è solidarizzare, ma provare a capire anche rispetto a quello che potrebbe essere un cambio di strategia comunicativa. Insomma, resta la posizione interiore di chi vive in bilico: “Non sono tranquillo, ma non mi alzo con la paura. Diverse cose che ho detto nel tempo sono diventate acclarate. Io più che dire la verità non posso”. E quando Sallusti gli chiede ancora, direttamente, se abbia ucciso Chiara Poggi, la risposta è secca: “No”. In quella sillaba c’è tutta la tensione di un uomo che dice di essere innocente, che teme di essere travolto e, forse per la prima volta, guarda il proprio riflesso nel destino di chi è già stato condannato da una posizione (umana)analoga. Come se la necessità più urgente fosse quella di sopravvivere all’idea che la verità, qualunque essa sia anche in relazione a quel “io” del suo “non ho ucciso io Chiara Poggi”, possa arrivare troppo tardi.