Il 3 dicembre - Giornata internazionale delle persone con disabilità - è arrivato anche quest'anno, portandosi dietro il solito arretrato di propositi e appelli inascoltati. Sono anni che ascoltiamo sempre gli stessi discorsi, istituzionali e non, ma nei fatti non è cambiato granché. Sul piano sociale e professionale i diversamente abili sono trattati ancora come cittadini di “serie B”. Poco simpatico da scrivere, forse. E forse non crea neppure hype.
Non giriamoci intorno, la disabilità è considerata un problema. C'è molta paura. Paura di non sapere cosa fare, paura di sbagliare, o di fare troppo poco. Eppure, almeno per oggi, vorrei mettere in stand by tutte le urgenze, che sono ancora parecchie (dalla scuola al lavoro, dalla riforma delle pensioni ai diritti dei caregiver), e i tristi e recenti episodi di cronaca, come del giovane disabile picchiato in strada a Vigevano, per dare spazio ai progetti di vita indipendente che si realizzano in tutta Italia. Perché anche l'handicap più grave può passare per una vita autonoma e piena. No, non è semplice, ma nemmeno impossibile. Ve lo racconto sulla mia pelle.
Mio fratello va a vivere da solo. Un passo doveroso se hai più o meno trent'anni, nella norma, se non fosse che siamo tutti un po' mammoni, per piacere o per necessità. Eppure quel passo è più di un semplice momento fondamentale per la vita di ognuno di noi. Mio fratello è disabile. Una disabilità motoria, per fortuna non degenerativa, vale a dire con una prospettiva di vita uguale a qualsiasi altra persona. Un ragazzo cresciuto in carrozzina o sedia a rotelle, fate voi, che è la sua compagna di viaggio, familiare per noialtri, come normale è ormai la sua condizione. Ma non è sempre stato così.
“Poverino”, una frase misericordiosa che mi ha sempre fatto incazzare, insieme al pietismo di facciata. Eppure, già nel corso dell'adolescenza, Francesco (il suo nome, W la fantasia) è sempre stato più avanti degli altri. Nelle azioni, nelle reazioni, nella capacità di perdono e di accettazione. E la sua vita è riuscita a costruirsela alla faccia di tutti, anche delle diagnosi non previste, passando dalla formazione alle passioni e alla rete di amicizie.
Per questo pensare al “dopo di noi” è stato un passaggio necessario, accompagnato dalla sua naturale urgenza di autonomia. In questo ci ha dato una mano una delle iniziative supportate dallo Stato con finanziamento dell'Unione Europea, per garantire un futuro abitativo quando verrà a mancare il sostegno della famiglia. Così, quando un paio di settimane fa ci ha contattato l'assistente sociale del comune (di Salerno, la mia città), sapevamo già come sarebbe andata a finire: mio fratello avrebbe fatto il diavolo a quattro per farne parte. La sua forza è sempre stata quella di non porsi dei limiti, oltre a quella di essere un gran rompipalle. Non a caso ha superato la prima fase colloquiale, dimostrandosi al solito grintoso e determinato. Forse quelli più intimoriti siamo noi familiari: ce la farà? Ce la faremo?
Diciamolo chiaro: quando non si è autonomi nemmeno per andare al bagno e pisciare, e si ha necessità di aiuto anche per le esigenze più basilari, le paure sono sacrosante. Ma anche la quotidianità va imparata. Suona strano, invece è così.
Se una persona in carrozzina è in grado di gestire la cura della sua persona con l'aiuto di qualcuno, basta un appartamento senza barriere architettoniche e qualche ora di assistenza personale per vivere da solo o in compagnia, e lo stesso vale per la disabilità intellettiva e relazionale. Così siamo andati avanti, alla fase di selezione dei coinquilini, scelti mediante dei criteri precisi, che vanno dall'accertata disabilità alla motivazione ad intraprendere un percorso simile. Mentre apprendiamo anche le fasi salienti della convivenza, con altre persone con handicap e normodotati. Vale a dire l'organizzazione per gli spostamenti, per chi va all'università, a lavoro o altro. Poi la condivisione degli spazi e la coordinazione delle attività pomeridiane, serali e festive. Incluso gite, serate in discoteca e domeniche allo stadio. Intanto che Francesco scalpita, dipendesse da lui, il suo trolley sarebbe pronto già domani, invece dovrà aspettare ancora qualche mese. Giusto il tempo di abituarci alla sua assenza. A trenta minuti da casa, ma finalmente libero, indipendente.
Una storia come un’altra, ma con lo stesso comune denominatore: vivere la vita da protagonisti. Diverso da chi? Fanculo la disabilità.