Un altro giorno, un’altra polemica aizzata dai politici - che, ormai, fanno ancora davvero politica o si limitano a inscenarne la caricatura? - con l’unico scopo di strumentalizzare qualsiasi cosa capiti a tiro. Questa volta, la miccia è stata una campagna di comunicazione per la sicurezza stradale a Jesi. Nella sagoma di una madre che spinge una carrozzina, molti hanno voluto vedere non una scena di quotidiana normalità, ma la figura di una donna interamente velata, quasi inghiottita da un burqa. Sul cartello campeggia la scritta: “La strada è di tutti”. Ed è bastato. Apriti cielo. Perché l’attuale destra italiana sembra non crederci, che la strada sia davvero “di tutti”. Al massimo, la strada è di chi si conforma: italiani, o meglio europei, o meglio caucasici. Il messaggio universale di convivenza diventa così terreno fertile per l’ennesima crociata identitaria. Fratelli d’Italia ha subito risposto, evocando Oriana Fallaci, la “distruzione della nostra identità”, la difesa dei crocifissi e delle chiese cristiane minacciate dall’Islam. Dispiace che un’autrice come la Fallaci, che tanto ha contato nella storia culturale e civile del nostro Paese, venga utilizzata come arma polemica. Perché, ricordiamolo, la stessa Fallaci sostenne battaglie che oggi sarebbero invise a gran parte della destra, come quella per il diritto all’aborto. Ma questo dettaglio viene messo tra parentesi, dimenticato quando non conviene. Si preferisce estrarre frasi, parole, immagini, piegandole a un discorso che non ha radici nella realtà, ma nella convenienza elettorale. E in effetti il “sentimento di persecuzione” che questi politici ostentano appare più una strategia comunicativa che un sentimento autentico: un espediente collaudato, che funziona nel manipolare l’opinione pubblica. Così, a intervalli regolari, torna il ritornello: islamizzazione, invasione, perdita di identità. Una narrazione facile, capace di suscitare emozioni immediate, viscerali, ma del tutto incapace di leggere la complessità del presente. Lo ha dimostrato, ancora una volta, Susanna Ceccardi della Lega, che pochi giorni fa ha confuso la “Desolata” di Canosa di Puglia - una processione cattolica che si tiene il Sabato Santo - per una manifestazione islamica. La malinformazione di certa stampa ha fatto il resto, e l’errore è diventato arma politica. È sempre la stessa parola a tornare, ossessiva: islamizzazione. Un mantra consumato, ripetuto fino alla nausea, come un burrocacao che non si stacca più dalle labbra. Ma la realtà è più semplice: nessun burqa, nessuna figura islamica. Come ha spiegato l’assessora alla mobilità Valeria Melappioni: “L’unica cosa che si vede è una figura genitoriale che spinge un passeggino, un’immagine universale di cura e responsabilità. La polemica sollevata è l’ennesima dimostrazione di come si cerchi di inquinare il dibattito pubblico su un tema delicatissimo come la sicurezza stradale con futili e pretestuose interpretazioni”. Un’immagine universale di cura, dunque. Eppure, tutto questo non basta. Perché non interessa la sicurezza stradale, non interessa la prevenzione degli incidenti, non interessa la tutela dei pedoni. Interessa piuttosto mantenere vivo uno spettro: quello del diverso, del pericolo esterno, della contaminazione culturale. È sempre lo stesso meccanismo: evocare la paura. La paura del diverso, certo, ma anche – e soprattutto – la paura di guardarsi dentro. Perché se davvero affrontassimo le ragioni profonde delle migrazioni, dei conflitti, delle instabilità geopolitiche, dovremmo ammettere responsabilità scomode. Dovremmo ricordare che spesso quei paesi “di origine” sono stati impoveriti, saccheggiati, destabilizzati da decenni di colonizzazione e di ingerenze occidentali. E allora la narrazione “ci invadono” crollerebbe, sostituita da un’altra più scomoda: “li abbiamo costretti a partire”.

La parola ignoranza, in questo contesto, non va intesa come insulto ma nel senso più nobile, quasi socratico: ignoranza è “non conoscere”. Ignorare la differenza tra fede e fanatismo, tra una comunità di preghiera e un gruppo terroristico. Ignorare le radici storiche, politiche e sociali che hanno favorito la nascita di certi movimenti estremisti, ben oltre la sola matrice religiosa. E soprattutto ignorare che la stragrande maggioranza dei musulmani nel mondo rifiuta la violenza, la condanna e la combatte. Un esempio: Hamas. Non “tutti i palestinesi sono terroristi”, come qualcuno ama insinuare. Al contrario, moltissimi musulmani nel mondo condannano il terrorismo. Ma nella Striscia di Gaza, dopo decenni di promesse tradite, trappole politiche e accordi mai rispettati – dagli accordi di Oslo alla conferenza di Madrid, fino ai colloqui di Washington del 1991 – cosa ci si poteva aspettare? Dal 7 ottobre 2023, con l’esplosione del conflitto a Gaza, la retorica dell’“islamizzazione” ha trovato nuovo carburante. È bastato quel trauma collettivo per riattivare la macchina della paura. E intanto, la vita dei “musulmani per bene”, dei cittadini comuni, delle madri col passeggino, continua a valere sempre meno nel discorso pubblico. Una madre velata che spinge un passeggino per strada diventa un attacco alla nostra identità. Ma davvero la nostra identità è così fragile da vacillare davanti a un foulard, a un velo, a un’immagine che in altre circostanze definiremmo semplicemente “materna”? C’è anche il tema delle donne, brandito come arma di propaganda. "Dove sono le femministe?" Eppure, dimenticano che il femminismo non impone un modello unico, ma difende la libertà di scelta. Moltissime donne musulmane non indossano il velo, altre lo portano per scelta, come parte della propria tradizione. Le femministe islamiche da decenni combattono – e continuano a combattere – per poter decidere liberamente. E le femministe italiane sono al loro fianco, in un’alleanza che va ben oltre le strumentalizzazioni politiche. Vale la pena ricordare che la religione cattolica, che molti politici si affannano a “proteggere” come se fosse un fragile vaso di cristallo, non è certo priva di tradizioni oggi difficilmente conciliabili con l’idea di modernità. Basti pensare al ruolo delle donne, rimaste per secoli escluse dal sacerdozio e ancora oggi tenute lontane da qualsiasi funzione liturgica di vertice. O al concetto di “famiglia tradizionale” difeso a spada tratta, che per secoli ha negato dignità alle unioni non conformi ai canoni imposti dall’istituzione ecclesiastica. Perfino il divorzio, oggi considerato un diritto acquisito, è stato a lungo un tabù, bollato come peccato gravissimo. Eppure, la stessa Chiesa cattolica – pur con lentezza e resistenze – si è trasformata nel tempo. Ha dialogato con la modernità, ha accolto (non senza contraddizioni) il progresso scientifico, ha aggiornato dottrine che sembravano scolpite nella pietra. Lo stesso è accaduto nell’Islam, almeno nella sua versione non radicale e non conservatrice: molte comunità musulmane hanno saputo integrarsi, rinnovare pratiche, adattare tradizioni secolari alle esigenze del presente, senza per questo rinunciare alla loro identità spirituale. Ci sono persino punti di contatto che raramente vengono ricordati: il culto della famiglia, la centralità della solidarietà comunitaria, la dimensione rituale del cibo, l’importanza della carità verso i più deboli. Tutti aspetti che, se visti senza pregiudizi, mostrano come le grandi religioni non siano monoliti estranei e inconciliabili, ma organismi vivi, che si trasformano e spesso si somigliano più di quanto vogliamo ammettere. Ma c’è di più. Perché l’idea che “tutti gli arabi siano cattivi, molestatori o assassini” non è affatto nuova. Basti leggere Black, Red, Blond and Olive di Wilson, dove gli arabi vengono descritti come esseri disgustosi, poco attraenti, indegni di compassione. La loro povertà non viene analizzata nelle cause, ma liquidata come segno di inferiorità. Scrive Wilson: “È vero che un certo disprezzo per gli arabi viene spontaneo a chiunque sia stato educato in Occidente, e che la crudeltà di Israele è in qualche modo pari alla stupida ostinazione degli arabi rifugiati in Giordania, che hanno rifiutato di essere sistemati altrove dall’Unrwa e che continuano a insistere nel voler tornare ai loro villaggi e alle loro fattorie in Israele”. Una pagina che mostra chiaramente come certe retoriche siano radicate da tempo, pronte a riemergere ogni volta che servono. L’identità non si difende erigendo muri. L’identità è viva, mutevole, porosa. Cresce e si arricchisce attraverso il dialogo, non attraverso l’esclusione. La vera fragilità non è accogliere la diversità, ma avere così poca fiducia in sé da temere che basti un velo a dissolvere secoli di storia e cultura. Il paradosso è che mentre gridiamo contro l’“invasione”, dimentichiamo le nostre responsabilità nel renderla inevitabile. Dimentichiamo che molti di coloro che arrivano qui lo fanno non per capriccio, ma perché costretti da condizioni di vita che noi stessi – con colonizzazioni, guerre, sfruttamenti – abbiamo contribuito a creare. Forse allora il compito della politica dovrebbe tornare a essere un altro: non quello di agitare spettri, ma di offrire strumenti di comprensione.
