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L’intervista che metterà in discussione le vostre sicurezze sulla guerra a Gaza, Vincenzo Fullone: “Io, omosessuale, vi spiego perché Hamas non è solo terrorismo e Israele non è una democrazia”

  • di Angela Russo Angela Russo

  • Foto di Ansa

16 luglio 2025

L’intervista che metterà in discussione le vostre sicurezze sulla guerra a Gaza, Vincenzo Fullone: “Io, omosessuale, vi spiego perché Hamas non è terrorismo e Israele non è una democrazia”
Ha vissuto a Gaza, ha fondato Ain Media che racconta la vita sotto assedio, ha conosciuto i tunnel, la guerra, la fame. Vincenzo è una voce fuori dal coro, appassionata e radicale: omosessuale dichiarato, sposato con un profugo, racconta che a Gaza ha trovato accoglienza, rispetto, protezione. Ci ha parlato dei diritti delle donne in Palestina: “Non sono venuto a salvarli, non sono un bianco europeo che insegna la libertà”. Non si definisce antisemita, ma accusa “la destra che fino a ieri faceva il saluto romano”. Critica il cristianesimo, dice che il Corano lo ha salvato, e sostiene che “non c’è nulla nell’Islam che mi divida da chi lotta per giustizia”. L'intervista più folle che leggerete oggi

Foto di Ansa

di Angela Russo Angela Russo

Vincenzo Fullone è una di quelle persone che quando parlano, non puoi non ascoltare con curiosità. Appassionato, diretto, spesso controcorrente, con idee forti e una convinzione incrollabile nelle cose in cui crede. In questa intervista folle ci ha raccontato la sua esperienza in Palestina, dove ha vissuto per un anno intero, conoscendo Gaza in ogni angolo, anche sottoterra, nei tunnel. È stato tra i fondatori di Ain Media, un progetto indipendente anche da Hamas nato per raccontare la vita quotidiana sotto le bombe, lontano dai riflettori, e soprattutto lontano dai soliti racconti. Ma non si è fermato lì. Vincenzo ci ha detto di fare il Ramadan dal 2013, pur restando cristiano. Di essersi sentito "guarito dall’indifferenza" proprio grazie all’Islam. E quando a Gaza gli hanno chiesto: “Tu credi nella verginità di Maria?”, lui ha risposto di sì - e da lì è nato un dialogo inaspettato, che lo ha portato a sentirsi parte di quella terra e di quella gente. Non si definisce musulmano, ma dice di sentirsi già dentro a quella “famiglia più grande”: quella di chi lotta per la giustizia, a prescindere dalla religione. Ci ha parlato dei diritti delle donne e i diritti Lgbtqia+ in Palestina. Insomma, Vincenzo divide. Ma colpisce. Noi di MOW non non prendiamo per oro colato tutto ciò che dice, ma è comunque una voce che ne rappresenta tante altre. Per questo ve la proponiamo. A voi lettori la possibilità di giudicare. 

Vincenzo Fullone a Gaza
Vincenzo Fullone a Gaza

Vincenzo hai vissuto a Gaza e hai assistito all’assedio dall’interno quando nessuno ne parlava. E ora?

Gaza era completamente isolata. Non solo dagli apparati internazionali, ma anche dalla vita pubblica. Quando parlavi di Gaza con la gente comune, ti dicevano: “Ma dove stai andando? Che ci vai a fare? Che te ne frega? Lì sono tutti terroristi”. “È un’enclave dove se la suonano e se la cantano, lanciano missili, ammazzano, costringono le donne”. Era un sistema folle. Io ci sono andato perché si era creata una connessione tra me e un gruppo di ragazzi. In Calabria, avevamo fondato un collettivo chiamato Jasmine. C’era una connessione tra il mio comune e Gaza. Alla fine è una piccola striscia di terra: 360 chilometri quadrati, come da Crotone al mio paesino, Crosia. Una settantina di chilometri di lunghezza, per una larghezza di 5-6 chilometri. Ogni anno gli israeliani prendono un pezzetto e spingono la popolazione sempre più verso il mare. Nei 2000, quella zona da noi, da Crotone a Crosia, era la via della cocaina, la via della ‘ndrangheta. La 106 ionica è una strada su cui lavorano dagli anni ‘70, ma non è mai stata sistemata. Era l’unica via per arrivare al mio paese. Questa mancanza di connessione ci ha fatto sentire isolati come Gaza. Abbiamo riconosciuto nel sistema israeliano un pensiero mafioso come la ndrangheta. Nel 2010, abbiamo scritto sul ponte all’ingresso del paese - costruito da Mussolini, come un checkpoint - la frase: “Crosia is Gaza”.

Come hanno reagito gli abitanti di Crosia?

La gente è impazzita: “Ma come vi siete permessi? Che c'entriamo noi con loro? Noi non siamo come quelli di Gaza". E da Gaza, da Shijaiyah, su un muro scrissero: “Gaza is Crosia”. Loro capirono subito il senso di quella connessione, di quelle piccole parole. Così conoscemmo Yasser, Rushdi, Asem, Hassan Oggi sono tutti martiri, tranne Asem che è ancora vivo. Cominciammo a sentirci quotidianamente. Loro ci chiedevano consigli: “Come ci vedono da fuori? Come possiamo cambiare la comunicazione per non essere percepiti come terroristi?”

E così hai deciso di andare a vivere a Gaza.

Nel 2011 facemmo il primo tentativo per entrare. Cercammo di passare da Allenby, dalla Giordania. Affittammo delle macchine, eravamo una decina. Arrivammo al checkpoint di Erez. La maggior parte di noi era omosessuale dichiarato, così decidemmo di giocare sull’ironia. Un po’ come nel teatro greco, ci mettemmo una maschera: “Ciao, vogliamo andare a casa, il mare è bellissimo". Ci risposero di andarcene. Ma noi volevamo davvero entrare. Dall’altra parte c’erano i nostri amici con i cartelli che ci aspettavano. Poi ci trovammo davanti a questo muro enorme, sembrava un palazzo di cinque piani. Una prigione. Quando insistemmo, uscirono con le armi e ci dissero: “Giratevi. Andate via. Di qua non si passa". Avevamo nascosto delle GoPro nelle auto e documentammo tutto. Dimostrammo che non si poteva attraversare, che c’era qualcosa là dentro che non doveva essere visto.

La scritta "Gaza is Crosia" in Calabria
La scritta "Gaza is Crosia" in Calabria

E poi?

Siamo tornati a Gerusalemme, poi ad Amman. Nel 2013, con Morsi presidente in Egitto, riuscimmo a entrare da Rafah. Avevamo chiesto i permessi come reporter. Nel frattempo avevamo aperto una libreria: Jasmine Bookshop, dove promuovevamo cultura araba, palestinese, letteratura e società. Avevo lavorato anche a Milano, a X Factor, avevo fatto mille cose. Tramite alcune case editrici ottenemmo i permessi e riuscimmo finalmente a entrare. Appena passammo il muro e quella porta d’acciaio, i palestinesi cominciarono a dirci: “Welcome to Palestine”. Non erano abituati a vedere persone comuni che venivano a visitarli. Solo Ong. Arrivammo a Rafah, che oggi è rasa al suolo. Ma allora era una cittadina bellissima. Da lì percorremmo la strada Rafah–Khan Younis–Gaza City. Non si vedevano segni di bombardamenti, se non fosse stato per quel muro, non ci saremmo nemmeno accorti di dove fossimo. Scoprimmo che di notte pulivano la città. Se c’era un bombardamento, arrivavano con i muli bianchi, oggi tra i più colpiti. L’Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Profughi Palestinesi nel Vicino Oriente) aveva fatto entrare camion per l’immondizia, ma erano troppo grandi: le strade, nate nei campi profughi, sono troppo strette. Così usavano i muli. Una notte vicino casa mia bombardarono una casa: in una sola notte smantellarono tutto, separarono pietre, ferri, mattoni, e ricavarono nuovo materiale da costruzione.

E da lì nasce Ain Media?

Esatto! Era la prima agenzia di comunicazione dall’interno. Prima, le notizie partivano da Tel Aviv, da Riad o dal Qatar. Non c’era nulla da dentro Gaza. Andammo al Ministero della Comunicazione e proponemmo l’idea. Gli piacque. Cominciai a lavorare con loro come consulente. Era la prima volta che un internazionale spiegava come le notizie venivano percepite fuori. Insegnai media e comunicazione a Gaza City. Sami Giordano, fotografo eccezionale, ha lavorato con Testino, esposto a Paris Photo e alla Biennale di Venezia, insegnava fotografia, video. Yasser e Rushdi crearono un circuito con giornalisti locali. Tutti quelli che vediamo oggi, si sono formati in quella nostra scuola.

Quindi Ain Media è anche una risposta a quella che viene considerata una manipolazione dell’informazione?

Assolutamente sì. Appena arrivato, fui invitato in Parlamento da Ismail Haniyeh. Mostrammo un video in cui confrontavamo la copertura mediatica israeliana con quella palestinese. Rimasero scioccati. I giornalisti israeliani parlavano perfettamente tutte le lingue. Quando arrivava un razzo, e io li ho visti, ero lì con gli Al-Qassam, ho documentato tutto, loro lo riprendevano in modo spettacolare. Mentre i palestinesi parlavano un inglese incerto, con immagini splatter di bambini. Disse loro: “Chi credete che la gente ascolti? Loro, o voi?”. Gli spiegai: “Il vostro popolo non ha bisogno delle vostre parole. Chi ne ha bisogno è il mondo esterno. Quindi, o parlate bene, oppure lasciate parlare altri". Serve una società di comunicazione dall’interno. Serve un ufficio stampa. Loro non sapevano nemmeno cosa fosse. Dissi: “Basta con immagini scioccanti. Parliamo della daily life, della quotidianità. Se vogliamo giustizia, dobbiamo ripristinare la verità". Parliamo delle università, dei contadini, dei pescatori, degli artisti, dei giovani meccanici. Solo così le persone capiranno che, quando dicono “abbiamo colpito terroristi”, in realtà hanno colpito esseri umani.

Vincenzo e gli amici palestinesi del gruppo Jasmine
Vincenzo e gli amici palestinesi del gruppo Jasmine

Nel 2025, perché ancora la gente quando sente parlare della Palestina la associa ad Hamas?

L'associazione "terrorismo uguale Hamas" io la rigetto totalmente. Li ho conosciuti. Sono stato nei tunnel, sono stato nelle aree da cui partivano i razzi. Ho frequentato gli Al-Qassam, ho parlato con gli altri gruppi. È vero quello che dici: l'opinione pubblica è influenzata, ma devi riconoscere anche che, oggi, quei giornalisti e quei ragazzi di Gaza hanno finalmente aperto un varco. Qualcosa si è smosso. E poi c’è stata Shirin. Shirin ha fatto il resto. Quando abbiamo aperto il primo media a Gaza, abbiamo fatto di tutto per far entrare Al Jazeera. All’epoca Al Jazeera non c’era: l’abbiamo fatta entrare noi con Shirin Abu Akleh. Il volto di Shirin era uno dei più noti. Era una donna. E pensa che Hamas disse: “Voi volete una portavoce donna? Ma come, esponiamo una nostra donna così agli occidentali?”. Bisognava capire la loro mentalità: era come nel Sud Italia, in Basilicata o in Calabria, dove la donna viene protetta, tenuta da parte, non per sminuirla, ma per preservarla. All’inizio non lo capivo, ma poi ho cercato di comprendere anche questo, come pure la questione del velo. A Gaza il velo non è solo religione: è una barriera sociale, serve a proteggere.

Cosa intendi con "il velo serve a proteggere"? 

Tu pensa che a Gaza le persone sono chiuse 24 ore su 24. È una prigione. Hai idea di cosa significhi essere un ragazzino di 15-16 anni, pieno di testosterone, con l’ansia dei bombardamenti e la morte accanto ogni giorno? È normale cercare una via di fuga. Hamas, infatti, proibisce l’alcol. Se tu gli dai anche l’alcol, finisce che si ammazzano tra di loro in un giorno. Il velo, allora, diventa una forma di protezione, quasi una misura d’emergenza. Israele là dentro ha creato un ambiente disumano, una giungla. In mezzo a tutto questo, loro cercano di mantenere un minimo di equilibrio sociale. Io poi sono riuscito a far capire loro che l’educazione che danno le madri a Gaza è già sufficiente. C’è un onore enorme, davvero. Ad esempio, quando ho sentito le accuse secondo cui, il 7 ottobre alcuni palestinesi avrebbero stuprato delle donne, non ci ho creduto minimamente. Conosco i gazawi: non si tengono niente in bocca. Parlano, raccontano tutto. Se una madre avesse saputo che suo figlio aveva fatto una cosa del genere, ti giuro, lo avrebbe ucciso con le sue mani. C'è un livello di onore, eleganza, rispetto che non avete idea. 

Però le violenze, anche sessuali, sono state documentate da foto e video. Come te le spieghi? 

Te lo spiego con un esempio che faccio spesso anche all’università: tu prendi un cagnolino, lo chiudi al buio, gli accendi la luce quando vuoi tu, lo picchi, non gli dai da mangiare, oppure lo obblighi a mangiare solo quello che decidi tu. Che fa quel cane? Scava. Scava per scappare. È quello che hanno fatto loro. Non si trattava di difendere Hamas, avete visto come sono caduti i campi di Hamas, come sono stati uccisi. Yahya Sinwar ha combattuto fino all’ultimo con un bastone contro un drone. I tunnel inizialmente servivano per far entrare cibo dall’Egitto. Poi Al-Sisi li ha chiusi e allora si sono concentrati su quelli che portavano in Israele. Io avrei fatto la stessa cosa. Quando la resistenza ha reagito su Kfar Aza, io ci sono passato. Sono stato a Erez. Quell’area è altamente militarizzata. Non è come si vede in Tv. Non c’è solo un muro: ci sono passaggi, fili spinati, checkpoint. Tutte le persone che vivono a ridosso del muro sono militari. Non possiamo più girarci intorno: erano militari. E poi in Israele non esistono veri civili. Se vuoi un passaporto di tipo “A”, devi fare il militare. Solo pochi vengono esentati. Fanno tre anni gli uomini, due le donne, e poi sono riservisti a vita. Quelli che stavano lì a ballare, erano tutti militari. E poi ci dicono: “quello era filippino, quello era di un’altra origine”. Certo, hanno tutti doppia cittadinanza. Ma non sono autoctoni. È tutto artificiale.

Vincenzo a Gaza
Vincenzo Fullone a Gaza

Tu sei italiano, sei calabrese. Come vivi il silenzio, o la neutralità, dell’Italia davanti a tutto questo?

La neutralità degli italiani la conosco benissimo, come conosco quella dei calabresi. Per anni abbiamo accettato in silenzio il potere mafioso, che ci toglieva la libertà e ci impediva di respirare. Da Berlusconi in poi la narrazione è cambiata. Prima avevamo rapporti più stretti con la Palestina, poi tutto si è invertito. La nuova narrazione ha trovato casa nella Democrazia Cristiana, che è dentro di noi come un virus, legata al cristianesimo. In chiesa si parla di Israele dalla mattina alla sera, come se fosse sempre esistita. Ma gli archeologi israeliani, benedetti loro, continuano a dire che non hanno mai trovato prove concrete di questa “grande nazione”. Scavano, scavano… e non trovano niente. Neanche il Tempio è certo che ci fosse. Israele, come concetto, nasce da una narrazione teologica: Giacobbe viene chiamato Israele da Dio, ma non è mai stata una nazione in senso moderno. "Israele" vuol dire “colui che combatte con Dio”. Non è uno Stato. È un’idea religiosa. Ma quella narrazione teologica ha lavorato per decenni, e adesso è radicata nella mente delle persone.

E cosa diresti, oggi, a un ebreo che considera Israele uno Stato con una missione religiosa?

Intanto chiariamolo: Israele non è una democrazia. È uno Stato confessionale. Se non sei ebreo di madre e per nascita, non puoi essere cittadino israeliano. Certo, esistono cittadini arabi, palestinesi, anche cristiani. Ma pochi. Li hanno dovuti prendere per forza. Chi può muoversi davvero liberamente lì? Solo chi ha un passaporto “di tipo A”. Io ho tanti amici ebrei che non hanno mai accettato Israele. Non hanno mai preso il passaporto israeliano. Rifiutano di fare il militare. Sono laici, e rifiutano lo Stato di Israele. I religiosi, invece, sono tutti là. Impazziti. Gli è stato promesso: “venite, avrete una casa, un lavoro, una terra”. Una terra tolta ai palestinesi. Fa sorridere: uno che mangia cibo rubato, beve acqua rubata, costruisce su terra rubata, e poi dice di avere una connessione spirituale con quella terra. E appena arrivano i bombardamenti, se ne tornano nei loro Paesi d’origine. Di cosa stiamo parlando? È uno Stato artificiale. È coloniale.

Quindi, alla fine, Eretz Israel (La Terra di Israele) in questo conflitto sarebbe solo una scusa?

In parte sì. Io conosco rifugiati di Gerusalemme che vivono ad Amman, rifugiati di Hebron, vissuti lì per anni. Tutti mi raccontano che, prima del Novecento, musulmani, cristiani ed ebrei vivevano insieme. E infatti, gli ebrei arabi che vivono lì sono contro lo Stato di Israele. Ma sono pochissimi. Il punto è che il sionismo ha trasformato la religione nel motore ideologico che muove i coloni. Sono il braccio armato di questo Stato confessionale. Non sarebbero mai andati là se non gli avessero detto che quella è “la terra di Sion”, che è la “grande Israele”. E ogni operazione militare ha un nome biblico. Non è un caso. Ora l’operazione si chiama Carri Rigidi, prima si chiamava Pilastro di Difesa, poi Margine Protettivo, poi Piombo Fuso. Ogni nome è simbolico, è teologico. Questo linguaggio non lo userebbe mai un esercito laico. È un linguaggio da guerra santa, da stato confessionale. È uscito recentemente un sondaggio pubblicato da Haaretz, secondo cui il 93% degli israeliani crede ancora alla promessa biblica di Samuele. Il profeta, che dice a Saul di sterminare tutto. Il passo è Samuele 1, 15:3. Dice: “Ora và, colpisci Amalek e vota allo sterminio tutto ciò che gli appartiene; non risparmiarli, ma uccidi uomini, donne, bambini e lattanti, buoi, pecore, cammelli e asini”. Il 93% degli israeliani crede che ciò che stanno facendo oggi a Gaza sia la realizzazione di quel comando biblico.

	 Vincenzo e gli amici palestinesi
Vincenzo Fullone a Gaza

In Europa si tende a bollare come estremista solo l’Islam, ignorando invece certe interpretazioni dell’ebraismo altrettanto radicali?

Esattamente! E nessuno ne parla. Io ho studiato al Vaticano: filosofia, teologia, esegesi biblica. È il mio pane quotidiano. Ma anche se non l’avessi studiato, quella terra fa parte della nostra cultura. Quando sono andato in Palestina, ho visto che persino i dolci sono gli stessi di quelli in Calabria. Il cristianesimo viene da lì, da quella terra. Altro che Roma: la vera sede del cristianesimo è Gerusalemme. Però abbiamo contribuito, anche noi, a falsare la storia. Abbiamo latinizzato i nomi arabi: San Giovanni Battista sembra nato in una viuzza del sud Italia, invece è nato a Ein Karem. E Gesù? Ce lo mostrano biondo con gli occhi azzurri, ma era Isa, ibn Maryam (Gesù, il figlio di Maria). Hollywood ha peggiorato tutto: pensa ad Aladdin, scuro, barbuto, ladro. Hanno impiantato in noi immagini tossiche. Quando sono arrivato a Gaza e ho visto quella bellezza, mi si è smosso tutto. Anche le mie amiche erano sconvolte: sono di una bellezza disarmante. Sai perché? Perché non si sono chiusi geneticamente come fanno certi gruppi ortodossi. Si mescolano, hanno occhi grandi, fisici tonici. È evidente. E io, che sono omosessuale, l’ho detto chiaramente a Ismail Haniyeh (membro di spicco di Hamas morto nel luglio del 2024, nda). Abbiamo lavorato fianco a fianco senza nessun problema. Ho detto loro: “Guardate che la soluzione siete voi, ma anche noi. Se gli omosessuali cominciano a guardare i vostri ragazzi con empatia, qualcosa cambia". 

Però il mondo islamico difficilmente accetta gli omosessuali. 

È una distorsione. In Palestina, oggi, la priorità è la libertà, è porre fine all’occupazione. I diritti civili vengono dopo quelli umani. Non si possono imporre le nostre categorie a una società che sta ancora lottando per la sopravvivenza. E poi, le leggi che criminalizzano l’omosessualità in Palestina derivano dal colonialismo inglese. La Costituzione palestinese è ancora quella del protettorato britannico. Come si può parlare di diritti civili quando non hai nemmeno uno Stato? Anch’io ho subito discriminazioni, sono dovuto andare via dalla Calabria. Anche qui ci sono stati morti, e parliamo di dieci, vent’anni fa. È ipocrita giudicare. A Gaza, gli uomini camminano mano nella mano. Non perché siano omosessuali, ma per costume, come lo era da noi un tempo. E ti dico di più: io sono sposato con un rifugiato palestinese originario di Gerusalemme. Ci siamo sposati in Italia. Ovviamente è un matrimonio protetto: la legge Cirinnà protegge chi sposa un musulmano, evita l’albo pretorio. Ad Amman, dove ho vissuto dieci anni, vivevo la mia relazione alla luce del sole. A Gaza tutti sapevano che ero omosessuale. Anniyah, un'amica, una volta scherzò: “Guarda mio figlio piccolo, se ti piace, portatelo in Italia, basta che lo porti via da qui”. Io ero inserito benissimo lì. Meglio di Vittorio Arrigoni. Sai perché? Perché non sono andato là a parlare di Cuba e di Che Guevara. I palestinesi hanno già tutto. Non hanno bisogno della nostra iconografia occidentale. Una volta mi hanno detto: “Basta i francesi, le crociate, gli inglesi…tutti a dirci cosa dobbiamo fare. Ma ci lasciate in pace, così decidiamo noi?” Un giorno, in una plenaria a Gaza, dissi ad Hamas: “Voi credete che quando la Palestina sarà libera, ci sarà Hamas al governo?” Sai cosa mi risposero? “No. Né Hamas, né Fatah, né Jabha Sha’biyya. Ci sarà la Palestina”. Perché Hamas e tutte queste sigle servono ora, per combattere l’occupazione. Ma non sono il futuro. Se ci fosse uno Stato vero, non ci sarebbe bisogno dei “padrini”. Come in Italia: se il Sud fosse stato integrato davvero, non sarebbe nata la mafia. 

Ho notato che non hai mai utilizzato la parola genocidio. Come mai? 

Ho studiato ermeneutica, etimologia. Per me le parole contano. Ho insegnato anche in Palestina: non sono riuscito a far capire che non è una guerra. Non ci sono due eserciti, né due Stati sovrani. È un’occupazione. Non uso nemmeno “genocidio”, perché ora lo usano tutti, ma come se fosse iniziato solo due anni fa. È un genocidio che dura da 77 anni: deportazioni, rastrellamenti, occupazioni. Dall’inizio del sionismo, nel ‘900, quando hanno iniziato a trasferirsi gruppi ebraici in Palestina. I kibbutz servivano come torrette militari. Nel ‘48, durante la Nakba, hanno distrutto centinaia di villaggi in pochi giorni, espulso un milione di palestinesi. La domanda è: “Cosa dovrebbe accadere?” Te lo dico: Israele deve tornare a essere Palestina. Come dicono Ilan Pappe e molti intellettuali israeliani. La nazione è la Palestina. Poi cristiani, musulmani ed ebrei decideranno i loro politici. Israele è un’entità artificiale, come l’Algeria francese. Va smantellato.

Gaza oggi
Gaza oggi foto di Amnesty

Quindi neghi il diritto di esistere a Israele? 

Attenzione: a Gaza cristiani e musulmani vanno d’accordissimo. Anche nelle Brigate al-Qassam ci sono cristiani. Questo ti fa capire che sono scelte politiche, non religiose. Un cristiano può militare in al-Qassam perché ne condivide l’ideologia politica, non perché crede nella Shari‘a. Uno sceglie Hamas, un altro Fatah, un altro Jabha. Sono semplicemente sigle in una situazione di resistenza. 

Sai che molte persone, dopo queste affermazioni, ti accuserebbero di antisemitismo?

Sai perché sono andato a Gaza? Perché il mio primo libro di narrativa, all’epoca in terza media c’era la narrativa estiva, fu Il diario di Anna Frank. Io ho giurato su quel libro quando ero bambino: se fosse accaduto di nuovo, io non sarei rimasto in silenzio. Io non mi sento assolutamente antisemita. Primo, perché la discendenza di Sem comprende tutti i ceppi linguistici arabi e anche ebraici, perché l’ebraismo viene dai ceppi linguistici di quell’area. Quindi, per me, i semiti sono gli arabi. E tra gli arabi ci sono ebrei di religione ebraica, cristiana e musulmana. Non può essere che solo loro, gli ebrei, siano semiti. E poi non accetto lezioni da chi ha creato l’antisemitismo. Da questa destra schifosa che, fino a ieri, faceva il saluto romano. Non accetto da loro lezioni di antisemitismo.

Cosa hai imparato dell’Islam che un cristiano dovrebbe conoscere?

Io sono scomunicato. Credo comunque nella mia religione, sì. Credo in Gesù Cristo, credo nella Madonna. Quando sono arrivato a Gaza, la prima domanda che mi è stata fatta, come a tutti gli internazionali, è stata: “Tu credi nella verginità di Maria?”. È la domanda che fanno quasi a tutti, perché molti internazionali espongono il loro ateismo, e se togli Dio a Gaza, gli hai tolto tutto. Non è un fideismo cieco: è un’appartenenza. È l’unica cosa che gli è rimasta. Hanno sempre avuto solo Dio. Io sono rimasto spiazzato: “Che vuol dire questa domanda?”. Ma siccome conosco il Corano - l’avevo già studiato all’università - ho risposto: “Certo che ci credo”. E loro mi hanno detto: “Ibn Mariam, sei il figlio di Maria”. Io sono rimasto sconvolto da questa cosa.

Cos’è l’Islam per te? 

Io faccio il Ramadan dal 2013. Per me l’Islam è come se fosse oggi il mio catechismo della Chiesa Cattolica che non abbiamo più. È misericordia, è veramente amore nei riguardi di ogni creatura, e soprattutto è resistenza. A me, l’Islam mi ha salvato. Mi ha guarito dall’indifferenza.
Perché nell’Islam è fondamentale: se mangi, deve mangiare anche il tuo vicino. Io a Gaza ho imparato davvero. Loro mi hanno detto: “Ma tu sei già musulmano”. E io a loro ho detto: “E voi siete già cristiani”. Io non mi converto all’Islam per un semplice motivo: Primo, perché non sento il bisogno di convertirmi a una religione. Mi sento già parte di una grande famiglia: la famiglia palestinese, la famiglia dei giusti, quelli che lottano per la giustizia. E poi: a che serve? Non sarei più credibile. Non sono interessato. E poi, nel Corano, Maria è intoccabile. Ma sono più le cose che ci uniscono. Per esempio, loro non credono che Gesù sia il Figlio di Dio. Ma per me non è necessario dirlo. Noi abbiamo la Trinità: possiamo dire Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo.
Nel credo diciamo che Gesù apparirà sulle nuvole alla fine dei tempi, per giudicare i vivi e i morti. Per l’Islam, Issa verrà alla fine dei tempi perché non è morto sul Golgota. Issa è vivo. E per me è perfetto così. Perché il cristianesimo - che ci hanno fatto diventare quasi come gli ebrei, col senso di colpa continuo, con questa croce che dobbiamo flagellarci addosso - non ci ha fatto superare tutto. Ma se Gesù è risorto, è vivo. È la base. Quindi non ho trovato niente che mi divida dall’Islam. Anzi, ho trovato tutto perfettamente connesso. Non è sincretismo. È storia. È Palestina. E come può una religione, che è nata lì e si è inserita su una maggioranza cristiana, non considerare Maria e Issa? È ovvio che li hanno considerati. 

Se un giorno dovessi tornare a Gaza, non hai paura di non riconoscerla più?

Io già non la riconosco più. I miei amici, io mi sento quotidianamente con loro, mi mandano immagini, video. Io non la riconosco più. Chiedo a loro: “Ma dove siamo qua?”. Io conoscevo benissimo Gaza. Ci sono stato un anno. Ho girato Gaza in tutti gli angoli, sopra e sotto terra. Conosco i tunnel benissimo.

E il ristorante che hai aperto in Giordania, Jasmine House?

L’abbiamo ceduto. Anche Ain Media è ferma. Il sindaco di Gaza era il padre di Rushdie Serraj, uno dei fondatori di Jasmine e Ain Media. È stato ammazzato. 

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di Angela Russo Angela Russo

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Ansa

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