Partiamo da questo: Fedez e gli attivisti di Ultima Generazione giocano la stessa partita: quella dell’ostentazione. Non serve più un Pasolini per stigmatizzare i costumi pubblici, bastano un microfono e una diretta. “Lo fate solo per rompere i coglioni” è la sintesi tagliente che l’ex Ferragnez, stuzzicato da Giuseppe Cruciani durante La Zanzara, diffonde su Radio 24, rivolgendosi a Ester Goffi di Ultima Generazione. L’accusa è chiara: gli attivisti non vogliono salvare il mondo, ma solo disturbare la quiete dei jet-setter. “A me piace la tracotanza – le parole di Fedez – di chi pensa di essere la polizia dei cieli e di essere moralmente più elevato degli altri. Le faccio una domanda, signorina, mi scusi, lei sa quanto l'aviazione gli aerei impattano sull'ambiente rispetto alle emissioni di CO₂? Impatta il 2% sul totale delle emissioni, i privati impattano meno del 2%. Voi dovete cagare il cazzo a quelli che volano con i privati semplicemente per cagare il cazzo, tanto per, questa è la verità, perché anche se io e tutte le persone non viaggiassimo col privato, il mondo brucerebbe uguale, quindi lo fate solo per rompere i coglioni. Mera retorica del cazzo”. Difficile dargli torto sul tono, ma sulla sostanza?
I dati danno sostanzialmente ragione a Fedez: secondo l’Easa (European Union Aviation Safety Agency), l’intero settore aereo contribuisce per il 2,5% alle emissioni globali di CO₂ (2023). In Europa, la quota sale al 4% delle emissioni complessive e al 12% di quelle legate ai trasporti. Ma attenzione: la quasi totalità è dovuta agli aerei di linea, non ai jet privati. Secondo il rapporto Icct 2024, i jet privati pesano “appena” per il 4% delle emissioni dell’aviazione civile globale. Cifra in crescita, certo – 19,5 milioni di tonnellate di gas serra nel 2023, +25% in dieci anni – ma comunque una goccia nel catino del cambiamento climatico. Insomma, se anche domattina Fedez dovesse partire per Ibiza su una Panda a metano, il pianeta non si salverebbe, ma i social perderebbero un ottimo pretesto.

Il jet privato, però, è un simbolo: conta più la sua silhouette scintillante sulla pista che l’anidride carbonica realmente prodotta (se poi l'anidride carbonica fosse realmente un problema, ricordiamoci che tutti noi ne produciamo a ogni respiro: togliamo di mezzo qualcuno?). La battaglia ecologista si fa più per bandiere che per bilanci, più per hashtag che per impatti concreti. Qui sta il punto che Fedez inquadra: il jet privato è uno status symbol, non solo per chi lo possiede ma soprattutto per chi lo odia. È il simbolo di una distanza – di classe, di denaro, di possibilità – che si preferisce attribuire a un peccato morale piuttosto che ammettere come condizione materiale. Ultima Generazione non combatte solo per l’ambiente, combatte contro l’immagine di chi può permettersi di non condividere nulla, neppure l’aria di un aeroporto. E questa, più che ecologia, è l’ecologia dell’invidia.
Perché, si sa, l’aereo di linea non sarà green, ma almeno è democratico. Tutti insieme appassionatamente nella fila 32, a guardare con sospetto quello che allunga le gambe nella business class. Ma il jet privato, quello non si perdona. Non per quanto inquina, ma per quanto esclude.

Attivismo performativo: la sindrome di Savonarola
C’è chi vola alto e chi urla da terra, ma entrambi condividono una passione irrefrenabile per la scena. L’attivismo, in quest’epoca dove tutto è branding, spesso si fa più performativo che efficace: l’eco della fama mediatica contro la sostanza dei risultati. L’indignazione è la nuova valuta. Le vecchie “auto blu” della Prima Repubblica, bersaglio di satira e furore civico, oggi rivivono nei jet privati: non si odia davvero il mezzo, ma il potere che rappresenta, e ancor più il riflesso del proprio non averlo.
Chi controlla, però, i controllori morali? La “polizia etica” improvvisata ha lo stesso vizio di chi combatte: l’ossessione per il gesto simbolico, lo slogan pronto, la necessità di vedersi (e vedersi riconosciuti) nel pubblico martirio. “Noi dobbiamo rompere i coglioni” diventa una ragione d’essere, quasi quanto “noi dobbiamo continuare a volare”. In fondo, il jet privato è la scusa perfetta per non parlare di ciò che davvero fa la differenza: sistemi energetici, consumi collettivi, stili di vita diffusi e scelte politiche. Ma qui la scena si fa meno brillante, la recita più noiosa. Il vero nemico del pianeta, dati alla mano, resta l’industria pesante, ma nessuno sogna di vedere un influencer fare story su una fornace di periferia.
In fondo, tutto si riduce a un gioco delle parti dove l’unica cosa che vola davvero è la colpa. Colpevolizzare è lo sport del millennio: serve un capro espiatorio, meglio se famoso, ancora meglio se antipatico. La personalizzazione del conflitto pubblico è il vero motore delle moderne società di massa. Il pubblico vuole carne e sangue: un colpevole identificabile, una guerra tra “caste” da giocare a colpi di meme e indignazioni private.
E così, meno jet privati, più click pubblici: la coscienza ambientale si misura in engagement, la virtù nel numero di story sui social. L’ambiente non interessa davvero: interessa la narrativa, la possibilità di sentire – e far sentire – che si è dalla parte giusta, almeno fino al prossimo trending topic. Il jet, come l’auto blu, è l’alibi perfetto per non parlare della sostanza: che sono sempre e comunque le scelte collettive, la fatica del cambiamento, il sacrificio senza testimoni. La lotta è per il pianeta o per il palcoscenico? La verità è che né i predicatori verdi né i rapper milionari sono disposti a rinunciare al proprio show: gli uni, con la loro retorica purificatrice; gli altri, con la loro ostentazione compulsiva. E in mezzo il popolo, diviso tra sdegno e desiderio, condanna esteriore e sogno interiore.

Forse la soluzione vera non è abolire i jet, ma il moralismo da salotto. E se il prossimo atto rivoluzionario fosse guardare i dati e non i selfie? Abolire la guerra tra predicatori e privilegiati e cominciare a pensare che l’ambiente non è un palco, ma un bene comune, noiosamente comune, tremendamente universale.
Siamo così sicuri che fare la morale sia il modo giusto per salvare la Terra? Forse, prima di far saltare i jet privati, dovremmo cancellare il selfie virtuoso. Forse il futuro arriverà solo quando ci saremo annoiati abbastanza da non voler più volare né protestare. O magari, più semplicemente, quando smetteremo di misurare la redenzione a colpi di like. Ma qualcuno è davvero disposto a spegnere il cellulare prima del motore?
Nel frattempo, i Fedez continueranno a volare e gli attivisti a gridare, e forse la vera CO₂ da ridurre è quella prodotta dal borbottio e dalle flatulenze verbali del nostro continuo bisogno di scandalizzarci. Se l’invidia fosse sostanza inquinante dell’ambiente e non solo di sé stessi, avremmo già superato il punto di non ritorno.