C’era una volta Dante, padre della lingua, anima inquieta che attraversava selve oscure in cerca di verità. E ora c’è Donte. Sì, Donte, con la “o”, “colpa di papà che all’anagrafe sbagliò il nome”, raccontano le cronache. Dalla selva oscura siamo passati al parquet lucido, dalla Commedia di Alighieri alla tragicommedia di DiVincenzo.
Donte DiVincenzo, alias “The Big Ragù”, soprannome a scavalco tra lontane origini abruzzesi e capelli rossi, diventa cittadino italiano in pochi minuti di partita diplomatica, per meriti speciali. Quelli, a quanto pare, non si negano a nessuno che sappia infilare una tripla. Per lui, tutto si è sbloccato con una nota del Consiglio dei ministri: “Su proposta del Ministro dell’interno Matteo Piantedosi, visti i pareri favorevoli espressi dal Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale Antonio Tajani e dal Ministro per lo sport e i giovani Andrea Abodi, ha deliberato di proporre al Presidente della Repubblica il conferimento della cittadinanza italiana, per meriti speciali, al Sig. DiVincenzo Donte Michael”. E adesso Mattarella deve pure affrettarsi per il gran finale: la firma, “formalità molto importante” (Sky Sport), perché il tempo stringe, mica si può perdere la palla a due degli Europei con coach Pozzecco.

La cosa buffa, però, è il tono fiero, quasi commosso, con cui si commenta il miracolo istituzionale. “DiVincenzo aveva tutti i titoli per diventare cittadino italiano e aveva già manifestato il suo entusiasmo per vestire la maglia azzurra”, assicura il ministro Abodi (Gazzetta dello Sport), tralasciando di specificare che, al contrario dell’altro giocatore Nba Paolo Banchero (che nonostante anni di corteggiamento poi ci ha fregati scegliendo la nazionale americana, e giustamente, non essendo mai nemmeno stato in Italia), “The Big Ragù” non aveva realistiche aspettative di poter giocare con Team Usa, e quindi se voleva giocare con qualcuno gli toccava venire da noi. E rilancia: “Aveva i titoli, abbiamo lavorato superando i vincoli burocratici dimostrando che nella collaborazione sappiamo fare bene e presto” (Ansa). Mai visti così agili, i palazzi romani, tranne forse quando si tratta di salvare qualche scranno.
Ma qui, sia chiaro, non si tratta solo di basket. Non è sport, è la solita doppia morale. Gli stessi del “prima gli italiani”, del “porti chiusi” (seh, ciao), del “padroni a casa nostra”, degli “stranieri a casa loro”, e del “no alle cittadinanze facili”, i fautori di sangue e suolo, si sciolgono come cheerleader davanti a un “micidiale tiratore già per la rassegna continentale” (Gazzetta). E lasciano in panchina le retoriche granitiche sulla necessità di essere “veri italiani”. D’improvviso, tutto scompare: tutto scorre, per chi ci serve a provare a fare bella figura (o una figura meno di merda) in mondovisione.

Chissà come si sente, leggendo queste cronache trionfali, un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri, che parla italiano come madrelingua e magari pure il dialetto locale, che fa tutte le scuole in Italia, che gioca in squadre del posto sin da piccolo, ma che non diventerà italiano almeno fino ai 18 anni di età, nella migliore delle ipotesi. Lui è tra chi, evidentemente, non “ha i titoli”.
Intanto, la tragicommedia dello sport all’italiana continua, fra la fregatura Banchero, l’immancabile oriundo Retegui nel calcio (pescato in Argentina e comprensibilmente già fuggito all’inseguimento di 80 milioni in Arabia) e questa strana caccia allo straniero al contrario, in cui gli uccellati e i presi per le piume siamo noi. E allora avanti il prossimo, che tanto qui, se serve alla Nazionale, diventare italiani è questione di secondi. E di primi, come la pasta al ragù di mamma DiVincenzo che, si narra, Donte era ansioso di far assaggiare all'allora neocompagno Giannis Antetokounmpo appena arrivato in Nba. Buan appetita. Sì, con la “a”, come Dante.