Dite la verità sui fake. Nell'estenuante vicenda della (fallita) trattativa per l'acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk emerge questo elemento come determinante per il negativo esito delle negoziazioni. Così si apprende dalle notizie che in queste ore si inseguono e danno come definitivamente chiuso questo dossier. Niente mosse tattiche, stavolta l'imprenditore sudafricano naturalizzato canadese avrebbe proprio detto stop. E dopo la svolta è partito il balletto dei numeri, tutti pesanti: 9% di calo in Borsa per il titolo di Twitter, 1 miliardo di penale che Musk dovrà pagare per il mancato acquisto, la quantificazione dei danni che Twitter si appresterebbe a chiedere al magnate per aver mandato in aria un accordo dato ormai per prossimo. Tanto più che il management del social network ha quantificato la percentuale di account fasulli in non più del 5% (Musk ribatte che la cifra sarebbe ben più alta), così intendendo sottolineare la pretestuosità del motivo addotto per far saltare la trattativa. Ma è stata davvero una questione di quantificare gli account fantasma se un affare di questa portata non è andato a buon fine?
Vista dall'esterno, si direbbe che possano esservi stati motivi ben più fondati e credibili per far fallire la trattativa. A partire dalla crisi generalizzata che colpisce tutte le multinazionali che operano nel settore delle comunicazioni multimediali integrate. Twitter sta male, ma a anche Facebook e altri grandi player non se la passano granché meglio. I profitti sono in calo, il taglio degli addetti si fa generalizzato e i margini di espansione sembrano esauriti. Le cifre parlano di circa 30 mila addetti licenziati nel settore, e quanto a Twitter ci sarebbe un taglio del 30% del personale dedicato al recruiting. Le azioni di Twitter hanno subito un'emorragia sostenuta già prima della botta generata da Musk. Insomma, il grande affare rischiava di essere una sòla. E il nuovo liberatore del social più frequentato da opinionisti e politici, colui che avrebbe dovuto restituire libertà di parola a chiunque (dove per “chiunque” si deve intendere “Donald Trump”), ha compreso che anche si fosse trattato soltanto di fare il paladino, sarebbe uno sfizio troppo costoso. E poiché in questi mesi gli è toccato affrontare anche un massiccio fuoco di sbarramento, alimentato da chi ha intravisto il rischio di un nuovo monopolio sulla comunicazione e l'opinione pubblica globali, ecco che tirarsi indietro deve essergli infine parsa la scelta più saggia.