Giorno quattro, Pogradec. Alla fine ha fatto un altro nubifragio. Così, all’improvviso, di notte, repentino come la fine della caciara sul lungomare quando viene mezzanotte. Eravamo a letto e sentiamo di tutto, tuoni, rombi, scrosci d’acqua, raffiche di vento. Mi alzo e vedo ancora una volta piovere di fianco alla testa di cervo, in sala, sopra il camino. Riappoggio li un asciugamano, usato a mo di straccio. Controllo che tutto sia in ordine, per quanto il terrazzo si inondato da secchiate d’acqua,e torno a dormire. Di mattino c’è il sole, come niente fosse. Segni della devastazione notturna sono i cuscini delle poltrone di nuovo intrisi di acqua, ma lo erano già da ieri mattina, e poi un vaso di gerani caduto in terra. Miracolosamente l’ombrellone gigantesco che fa da tetto ha retto. Meglio così. Facciamo colazione e poi comincio a caricare la macchina, da solo, perché ancora la caviglia di Tommaso non può sopportare troppi sforzi, maledetta fissazione per giocare a calcio nei momenti meno opportuni. Facciamo le foto di rito a casa, perché siam fatti così, ci affezioniamo anche a luoghi che ci ospitano per pochi giorni, e partiamo, direzione Pogradec, all’interno, sul Il lago di Ohrid, ai confini con la Macedonia del Nord. In realtà siamo diretti a Lin, paesino nei pressi di Pogradec, e stavolta, a differenza di Kavajes e Durazzo, la cosa ci è chiara. Abbiamo scelto noi casa li, perché volevamo anche un piccolo giardino, dove fare magari colazione, e Lin offriva la casa che faceva al caso nostro. Anche oggi, che è domenica, c’è molto traffico, ma lo spettacolo che offre il contorto della strada ci fa passare le due ore e quaranta di viaggio in scioltezza. Perché questo paesaggio così rurale, con mucche, pecore, asini e cavalli che stanno al lato della superstrada diretta a sud, prima, e di quella specie di autostrada che poi porta al centro dell’Albania, è davvero affascinante. Anche grazie al corredo di case fatiscenti, gommisti vari, negozi che vendono frutta e verdura, alternati a persone che vendono cipolle o patate al bordo della strada, il tutto in grande contrasto con le auto che solcano le strade, meno rovinate di quanto mi sarei aspettato.
Mercedes ovunque, e se non Mercedes Audì, BMW, comunque macchine di lusso, molto nuove e tenute con una cura che da noi raramente trovo. Man mano che ci sposteremo all’interno, vedremo sempre più gente intenta a lavare la macchina a bordo strada, con sapone e acqua, e una cura che, a occhio, non sembra essere rivolta anche alle persone. È domenica, del resto, e anche da noi, ricordo, un tempo, la gente lavava la macchina la domenica. Nel mio palazzo, ora, a Milano, vive un messicano gigantesco, con la testa più grande di un pallone di calcio e il collo grande come il mio torace, spesso dedito a passare il giorno in piazza, sotto casa, a bere birra con gli amici, dalla mattina alla notte, ecco, questo messicano, che poco si intona col palazzo nel quale vivo, decisamente più borghese di me, tutti i fine settimana lava la sua macchina, vecchia, evidentemente status simbol non so di cosa. Sul come facciano gli albanesi, cinquecento euro di stipendio medio al mese, una povertà esibita assai più che in altre parti del mondo che ho visitato, a permettersi auto che io non mi potrei neanche sognare è una cosa che mi ha destato molta meraviglia, e sulla quale ci siamo spesso interrogati durante gli spostamenti, certo non buttando lì il sospetto, forse vagamente razzista, che si tratti di auto trafugate dall’estero, a partire dall’Italia. Tommaso ha letto un articolo che diceva che la stragrande maggioranza delle auto rubate in Italia finisce qui, e sicuramente non sono utilitarie. Altra cosa che ci ha molto sorpreso, anche se in modo minore, è il numero di matrimoni che si tengono in Albania in agosto, perché oggi ne abbiamo incrociati quasi una decina. Il primo, in quanto tale, ci ha colto di sorpresa. Stavamo fermi in una radura, si in autostrada ci sono delle radure non meglio precisate, a fare foto a animali vari che pascolavano li di fianco, Dio quanto siamo cittadini, quando ecco che sentiamo un casino che sembrava quasi di essere ieri sera sul lungomare. Invece erano i clacson delle auto dei parenti e amici degli sposi, lì a festeggiare con loro. Ma il suono stavolta è arrivato prima della vista, perché poco dopo abbiamo visto una auto, una Mercedes nuova e gigantesca, dal cui finestrino spuntava un tipo che teneva in mano una telecamera, rivolta verso la macchina dietro, tutta imbellettata con fiocchi e palloncini, quella degli sposi, appunto. A seguire altre auto, clacksonanti e con fiocchi vari. Da quel momento, ogni pochi minuti, ecco altri clackson e altre auto e altri sposi. Tanti, troppi. Nel mentre siamo saliti verso i monti, attraversando una zona ex industriale con una fabbrica,a occhio metallurgica, di dimensioni degne della Brera. Tutta cadente, e senza che nessuno si sia preso la briga di pensare a robe come l’archeologia industriale o la riconversione, tipo Carroponte. Il paese più grande che abbiamo attraversato, proprio nei pressi della fabbrica di cui sopra, Elbasan, è il classico mix tra nuovo e cadente, più cadente che nuovo, condito di traffico, cani randagi, case popolari tutte uguali, le case popolari qui sono di solito in blocco, decine e decine di caseggiati, spesso isolate dal resto del mondo. Alcune, brutte come quasi tutte le case popolari a ogni latitudine del mondo, sia mai che il welfare sia anche gradevole alla vista, hanno dei giganteschi murales su una facciata, fatto che rende il tutto molto affascinante, al pari di una torre, penso anche essa di utilizzo industriale un tempo, cui sono state dipinte tante coccinelle sulla facciata, incontrata poco prima. Via via che si esce, e questo forse è comune anche a noi, il paesaggio si fa più cadente, e il più cadente di un posto cadente sa davvero essere estremo.
Salendo verso i monti il paesaggio muta, e a parte qualche impavido turista in sella a biciclette, stiamo salendo abbastanza, non si nota altro di particolare finché non arriviamo a Lin, dove la ricerca della casa si prospetta quantomeno divertente. Marsel, il padrone di casa, ci ha mandato la posizione su Google Maps, evidentemente non precisissima. Perché ha aggiunto una foto da Google Earth sopra la quale ha evidenziato una strada con un pennarello rosso, dicendo “seguite le indicazioni”. La famosa precisione svizzera degli albanesi. Arrivviamo, dopo aver incrociato diversi animali, tipo un asino e qualche mucca, un asino con un carretto lo abbiamo incrociato anche in autostrada, tipo come ci era successo una vita fa a Cuba, lungo la Carrettera Central. Sembra un borgo contadino, Lin, non saprei dire quanto vicino al lago, anche se la casa su Airbnb si chiama House near The lake. Seguendo indicazione e foto ci ritrovavamo su una specie di mulattiera, a fianco di uno spiazzale, sulla sinistra delle case basse, sulla destra tipo delle stalle. Chiamiamo Marsel, che ci dice che ci verrà incontro. Stiamo fermi in auto, quando vediamo un ragazzino in ciabatte da maranza che avanza sulla mulattiera verso di noi. È Marsel, ci dice, anche se avrà massimo quindici anni. Ci dice di seguirlo con la macchina, dopo una trentina di metri mi indica un vicolo sulla sinistra, facendomi segno di entrarci in retromarcia. Cosa che faccio, salmodiando e impiegandoci tanto tempo quanto ne avrei impiegato andando in auto a Pechino. Dentro è però un gioiellino. C’è un giardinetto curatissimo, e la casa pure è tenuta benissimo,tutto nuovo e pulito. A fare le veci del padrone di casa, chiaramente il ragazzino non è Marsel, una signora anziana, anziana forse poco più di me, che in albanese stretto ci parla, spiegandoci cose della casa. O meglio, parla con mia moglie, che a sua volta le parla in italiano. Nessuna delle due si capisce, ma sembra che invece vadano d’amore e d’accordo. Il ragazzino, invece, usa Google translator per dirci cose che la vecchia non riesce a spiegarci, tipo come funziona la cucina, e a un certo prima si accomiata facendoci leggere una frase che dice “qui nessuno vi molesterà”. Buono a sapersi. Prima di andarsene ci ha detto che a Lin ci sono due ristoranti, Leza e Rrema, il primo con la vista migliore, il secondo dove si mangia meglio. Optiamo per il secondo. Si trovano a duecento metri dalla casa, sulla piazza poco dopo dove ci eravamo fermati e sono affacciati sul lago, cosa di cui nessuno di noi si era accorto. Entriamo e ci fanno accomodare su una veranda che è proprio sopra il lago, tipo palafitta, a circa cinquanta metri dalla palafitta identica dell’altro ristorante, in cosa la vista li sia migliore ci sfugge. Non ci sfugge invece che la vista è strepitosa anche qui. Il lago di Ohrid è gigantesco, circondato da monti verdeggianti e dalle cime arrotondate. Le acque sono limpide, alcuni cigni in lontananza, tantissimi pesci sotto di noi, in attesa di qualche avanzo. I tavoli sono quasi tutti pieni. Al nostro fianco c’è una famiglia immagino locale, almeno stando agli abiti delle tre donne, tutte abbastanza anziane. Il cameriere, giovane, è in affanno. Prima ci lascia gli avanzi dei precedenti avventori davanti per un tempo piuttosto lungo, poi viene e sparecchia, ma non riapparecchia, infine arriva e ci chiede se abbiamo deciso, ce lo chiede in un inglese basico, ma nessuno ci ha dato un menu. I nostri vicini, in italiano, ci suggeriscono il pesce Corano, pesce che si trova solo in questo lago e che era una delle prelibatezze preferite da Elisabetta II di Inghilterra, questo ce lo ha raccontato il nostro amico albanese a Milano e si trova ormai scritto ovunque, e un formaggio tipo feta fatto nel villaggio, in pratica tutto a chilometro zero. Senza far impazzire il cameriere ordiniamo il pesce Corano per tre, mentre gli altri prendono una grigliata di carne, oltre che un assaggio del formaggio locale. Arriva il pesce, ma a parte la tovaglia non abbiamo altro, né piatti, né posate o altro. Il calmiere se ne accorge e va nel pallone, e finisce che i nostri figli berranno attaccati alla bottiglia. Il cibo è ottimo, il Corano è una sorta di salmone più leggero, il formaggio un mix tra feta e caprino. Il posto è poi incantevole, e anche se per un po’ pioviggina, direi che vale la pena bagnarsi un po’ ma godersi il panorama è anche la musica balcanica di sottofondo, qui assolutamente coerente.
I nostri vicini, poi, meritano un discorso a parte, o meglio, l’uomo adulto dei nostri vicini, con lui tre signore più anziane è un ragazzo con occhiali a specchio e cappello sui capelli lunghetti e ricci. Il tipo, vestiti di bianco tipo maestro di tennis, occhiali da sole neri e scarpe bianche, dopo averci consigliato, bene, il cibo, ci consiglia una zona del nord da visitare, lo stesso nome impronunciabile del ristorante di ieri sera. Poi, a nostra precisa domanda riguardo il suo italiano praticamente perfetto, ci dice che per dieci anni ha fatto eventi di danza, salsa, bachata, merengue, in un grande hotel nell’hinterland di Milano, divertendosi molto e vivendo grandi esperienze, poi aggiunge che dopo il covid ha deciso di fermarsi. Frase ambigua, che subito dopo ha spiegato nel dettaglio, stanco di lavorare ha deciso di passare il tempo andando in biblioteca, al cinema e girando in bici, per farci vedere la sua abbronzatura, figlia dell’andare in bici, ha scostato dal polso un orologio da ventimila euro mostrando la pelle più chiara sotto il cinturino. Una grande dimissione, fatta da uno che avrà circa la nostra età, e che sicuramente girerà in Mercedes, beato lui. Finito di mangiare arriva il conto, che immagino sia piuttosto basso, visto che siamo in un villaggio "in culandia", e che invece è di ottantuno lek, quindi circa ottantuno euro, il doppio di tutti gli altri pasti. Chilometro zero un cazzo, vorrei esclamare, non fosse che ottantuno euro per cinque è sempre pochissimo, adattarsi alla moneta locale è esercizio che impariamo subito, quando arriviamo in terra straniera. Torniamo verso casa, e poi ci spostiamo proprio a Pogradec, per un giro perlustrativo. Stando ai nostri appunti qui da vedere c’è il lungomare, poi un castello e infine il ponte di Ura e Golikut. Scopro da Google maps che il ponte, che stando alle foto è in effetti un ponte, si trova a tre quarti d’ora dalla cittadina, quindi decidiamo di saltarlo. Andiamo sul lungolago, molto ma molto carino. Nulla a che vedere col caos del lungomare di Kavajes. Ci sono una marea di anziani che giocano a domino su tavoli di legno e panchine. Decine e decine. Ci sono i soliti cani randagi, che qui dormono. Ci sono ragazzi e uomini al bar, come ovunque qui in Albania, ci sono famiglie che passeggiano, come noi. Vediamo un pontile, con uno scivolo tipo Acquafan, il cui accesso è però interdetto con delle assi di legno. Ci sono statue e giochi per bambini. Ci sono bancarelle e bar. Ma c’è soprattutto il lago, placido, rilassante, bellissimo. Dopo averlo percorso tutto, in entrambi i lati, e dopo aver fatto un salto in centro, tanto per prendere il magnete di prassi e un po’ di frutta fresca, di supermercati non ne abbiamo visto neanche uno, neanche lungo la strada, decidiamo di tornare alla macchina e andare a vedere il castello. Castello che non vediamo perché la strada che ci dovrebbe condurre fino a lui è una mulattiera che neanche un mulo potrebbe affrontare, figuriamoci una macchina, buche e sassi ovunque, con una pendenza del 30%. Sarà per un’altra volta, stasera si cena a casa, pasta al pomodoro e relax, ché domani abbiamo da visitare un parco e farci un giro in battello in Macedonia del Nord.