Si parla per chi resta. Si balla per chi resta. Il capofamiglia, il patriarca (o la matriarca) deve assumere su di sé questa responsabilità che lo obbliga a essere un po’ prete, un po’ sciamano, un po’ guaritore di anime. Mi riferisco alla vicenda di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, dove il nonno Gino ha ballato la techno di fronte alla bara del nipote, Kevin Gentilin, morto a 15 anni in un incidente stradale. “Era una passione che ci univa”, ha detto il nonno. “Andavamo in discoteca insieme”, ha aggiunto. “È stata una maniera di ricordarlo e festeggiarlo”, ha spiegato. Ma c’è qualcosa di più. La morte di un figlio o di un nipote apre uno squarcio nel cielo. Il lutto, la cui colpa sbrigativamente addossiamo alla natura, o ai piani di Dio, in questo caso stravolge le regole. Attraverso quello squarcio, nel cielo della nostra anima, entra qualcos’altro, entra l’ingiustizia della quale, quotidianamente, facciamo finta di non accorgerci. Attraverso quello squarcio entra il male, che sconquassa qualsiasi tentativo di dare un senso alla vita. Entra la follia, ma nel senso antico del termine, veniamo posseduti da un demone, forse il più umano tra i demoni, un demone empio che non si inchina al fato o a Dio: “Dio vuole distruggerci e noi gli cantiamo in faccia”, scrive Manlio Sgalambro in “Contro la musica”. Il ballo di nonno Gino è stato insieme un atto empio e santo, di rabbia e di amore. Si balla ‘contro’ Dio, e a favore di chi resta: il figlio di Gino, il padre di Kevin, è vivo, straziato dello stesso dolore del nonno. È contro Dio e a favore del figlio che nonno Gino ha danzato. Assumendo su di sé, come deve fare un patriarca, la colpa dell’empietà purché gli altri sopravvivano.
Quella di nonno Gino, lontana da essere una notiziola di cronaca ‘vera’, reca in sé qualcosa di arcaico, di primigenio, nasce in quel luogo dove l’uomo è di fronte a una natura che vuole ucciderlo: un luogo che esiste ancora oggi, nonostante tutti i tentativi della ‘civilizzazione’ di cancellarlo. Quel luogo esiste nella memoria i fuochi accesi dai vikinghi e le danze in festa dei morti caduti in battaglia. Esiste nei funerali danzanti di molti popoli africani. Esiste – in forma scialba – nei banchetti post-funerale della civiltà americana. Esiste nelle bottiglie di alcol che ci scoliamo prima di versarne il contenuto sulle tombe ancora fresche. Esiste nelle risate dei ricordi. Ed è il tentativo dell’uomo di ergersi di fronte a Dio – o come si chiama oggi, sbagliando, ‘natura’ – e, per così dire, vedere il suo bluff. Un incidente con lo scooter non è diverso da un serpente velenoso o da un masso che rotola dalla montagna. Quello che la ‘civilizzazione’ non ha compreso è che essa stessa fa parte di un processo ‘naturale’. E per questo odioso. Così come la natura, anche la civilizzazione vuole la nostra morte, esige i contributi di sacrifici umani così come lo esigevano le civilità atzeche: un popolo di schiavi della divinità; dove c’è ‘sacrificio’ c’è schiavitù. Il ballo di nonno Gino si scrolla dalle spalle tutta la schiavitù. Incita a vivere finché ce n’è. Che è un po’ quello che faceva Kevin, sapendo che al nonno era stato diagnosticato il cancro e insisteva per portarlo in discoteca, dove Gino ha scoperto la techno. In qualche maniera mi ricordano i Blues Brothers: in missione per conto di Dio e al contempo ‘contro’ Dio. Che è l’essenza dell’empietà, l’unica branca della teologia davvero salvifica, che elenca come in un rosario non le perfezioni, ma le imperfezioni di Dio, ossia della natura, in maniera da rendere chiaro come la giustizia non sia di “questo” mondo. Il ballo di nonno Gino è teologico. Dio vuole distruggerci e noi gli balliamo in faccia.