Alla fine la notizia è arrivata. Per chi come me, e come altri, le parole sono gli strumenti primari di lavoro, trovarsene sprovvisti è qualcosa di spiazzante. Lo è perché è come se di colpo ci si trovasse sprovvisti dei ferri del mestiere, comunque con un mestiere da portare avanti, come trovarsi al largo al mare senza avere la minima capacità di stare a galla. No, non credo sia giusto trovare una qualche frase a effetto. Provare ad allestire un ragionamento, costruire una narrazione. È morto Massimo Cotto, una delle penne più note della critica musicale. È morto per un aneurisma che ha avuto una ventina di giorni fa, che lo ha portato prima a un coma irreversibile, poi alla morte. La notizia era circolata giorni fa, incontrollata. Qualcuno l’aveva data con troppa fretta, indignando gli altri. C’era stata una smentita, ma ahinoi una smentita che sembrava non poi così foriera si speranza. Il coma era irreversibile, si era detto dietro le quinte, attraverso quel tam tam cauto e pudico che cerca conferme nella speranza di non trovarle. Così era. Oggi la notizia ufficiale della morte. Autore di decine di libri divulgativi sul fronte della musica, in particolare del rock, con un passato anche da direttore di collana che, proprio recentemente, era tornato alla luce, voce di Virgin Radio, autore di articoli e di spettacoli teatrali, sempre a tema musicale, spesso portati in giro sul palco con artisti, penso a Mauro Ermanno Giovanardi, penso a Andrea Mirò, penso a sua moglie, Chiara Buratti. Chiara che ultimamente ha passato un brutto momento, motivo che ha spinto Massimo a stare per un po’ lontano dai social, le sue foto di mattina presto con indosso una delle sue t-shirt a tema, gli inconfondibili occhiali dalla montatura rossa a incorniciare lo sguardo, erano una sorta di buongiorno fino a qualche tempo fa, lui vicino a lei in questi giorni difficili. Poi, esattamente come è successo a Ernesto Assante, un altro decano della critica musicale, un aneurisma cerebrale, il coma, la morte. Ora, probabilmente la cosa giusta da fare, adesso, sarebbe provare a elencare le tante, tantissime cose che Massimo ha fatto nel corso di una vita decisamente troppo corta, ma non per questo meno piena di soddisfazioni. Dovrei parlare di come abbia in qualche modo contribuito, fratello minore della generazione dei Riccardo Bertoncelli, a portare la figura del critico musicale, anche del critico musicale che diventa a sua modo una rockstar, in Italia. Degli anni passati in Arcana, quindi, ma credo che star qui a fare l’elenco delle cose fatte è davvero impossibile, e forse anche inutile, tanti libri, anche ufficiali con artisti come Ligabue, Piero Pelù, Patty Pravo, vado a memoria, gli anni da assessore alla cultura nella sua Asti, la recente avventura delle Cattedrali dell’Arte, le mostre di pittura di opere di cantanti che aveva portato, se non erro a Bard, in Valle d’Aosta, il recente esordio come romanziere con Gallucci, nel mentre le tante esperienze, come quelle a Area Sanremo, o nella Giuria di Qualità del Festival. Proprio durante una di queste, un paio d’anni fa, il La Mia Generazione Festival, nella mia Ancona, ci eravamo ritrovati, dopo periodi nei quali eravamo stati distanti, per questioni di lavoro, come a volte capita a chi ha caratteri forti e idee radicali. Ci eravamo ritrovati, e da lì era nata la sua idea di farmi inaugurare una nuova collana di libri di musica proprio per Gallucci, con un libro che nel mentre ho scritto e che però, giocoforza, negli ultimi tempi era in parte sparito dalle nostre conversazioni, dai nostri messaggi, più incentrati sulle vicende personali, familiari. Massimo, quando nel dicembre 2004 il magazine Tutto Musica, per il quale scrivevo, aveva chiuso di colpo i battenti, mi aveva chiamato a Rockstar, magazine di cui era direttore. Lo aveva fatto pur non conoscendoci direttamente di persona, per stima, e per solidarietà nei confronti di un collega che aveva appunto appena perso il lavoro. Mi aveva detto solo, “se vuoi qui c’è posto”, e per superare la mia diffidenza mi aveva anche offerto uno spazio che era a suo modo di blasone. Quando poi l’editore lo sostituì io persi quel posto, perché considerato “uno di quelli di Cotto”, così mi disse il nuovo direttore. La cosa mi fece ovviamente sorridere, perché io e Massimo ci eravamo conosciuti appunto in quell’occasione. Ma in fondo la cosa era vera, lo era allora, lo stava tornando a essere adesso, appunto.
Quella dei critici musicali italiani è una piccola, piccolissima comunità, ci si conosce un po’ tutti, almeno quelli che lo fanno per mestiere, ci si frequenta magari poco, giusto in occasioni pubbliche, quando cioè siamo chiamati a interfacciarci col sistema, ma comunque ci si tiene in contatto. Non ho mai dimenticato quel gesto, anche quando ci siamo trovati su posizioni distanti. Per questo, sul palco de La Mia Generazione Festival, è stato un piacere incrociare il microfono con lui, per questo mi sono ritenuto onorato che mi chiedesse quel libro, per questo quel libro è andato in secondo piano nel momento in cui mi è stato chiaro che al momento altre fossero le urgenze che lo tenevano impegnato. Sapere che è morto, di colpo, giovane, mentre stava dedicando le sue energie alla famiglia, un figlio giovane che immagino sconvolto, mi ha colpito come un cazzotto in pieno volto. Sono andato a rileggere l’ultimo messaggio che gli avevo mandato, messaggio cui non ha avuto modo di rispondere.
Come nel caso di Ernesto Assante, pochi mesi fa, la notizia è stata data avventatamente, quando ancora Massimo stava lottando con la morte. Ecco, lottare con la morte. Queste sono parole sbagliate, lo so, perché la morte è la morte, non ci si combatte, e se anche ci si combattesse è ovvio che avrebbe la meglio. Ma le parole, che spesso usiamo per stigmatizzare il male, per sublimarlo, in certi casi non servono a niente, sono sterili, a salve, inutili. Massimo Cotto, una delle penne più note e competenti della critica musicale italiana è morto a soli sessantadue anni in un caldo giorno di mezza estate. Non ci sono parole. Io e Massimo ci siamo sentiti l’ultima volta il 5 luglio, quando probabilmente il suo destino era già segnato. Come ho detto, stavo lavorando a un libro per la collana nuova di zecca cui stava lavorando per Gallucci, eravamo agli ultimi passaggi dell’editing, mi ha chiesto un paio di pagine di prefazione. Era divertito, perché mi diceva che era una cosa molto mia, immaginando suppongo le reazioni dell’editore. Negli ultimi tempi, proprio per quel libro, ci eravamo sentiti e scritti diverse volte, anche se più spesso ci eravamo parlati d’altro, una situazione familiare lo stava preoccupando molto. Il 22 gli ho scritto un messaggio, cauto, perché immaginavo che non averlo sentito volesse dire che proprio quella situazione lo avesse preso troppo. Ignoravo come stessero in realtà le cose. In questi giorni, per una forma stupida di scaramanzia, non ho scritto all’editore, e non credo che lo farò a breve. Perché la faccia di Massimo, gli occhialoni dalla montatura rossa, il sorriso, la pelata, lì sul volantino di lancio, mi addolora. Quando è uscita la notizia, poi smentita da Virgin Radio, spirito professionale mi avrebbe dovuto spingere a scrivere un coccodrillo. Uno di quei pezzi pronti all’uso, quando si sa che un personaggio noto è in fin di vita. Un modo per guadagnare tempo. Ma scrivere un coccodrillo per un amico è qualcosa che credo nessuno vorrebbe fare. Almeno la vedo così. Stamattina, aprendo i social, ho letto da un amico comune, che la notizia che tutti speravamo non dovesse arrivare era arrivata. Non ci ho creduto, ma era una difesa. Poi ho letto il post di sua moglie Chiara. Un messaggio dolente, ma carico di amore. Massimo Cotto è morto. E io, per una volta, non trovo parole da dire.