Non si tratta di imitarlo perché è inimitabile. Si tratta di studiarlo per farsi venire qualche idea nuova, per rimodulare la propria voce. Perché Stewart Lee, inglese classe 1968, da ormai una ventina d’anni trionfa praticando uno sport che conosce solo lui: la comicità dell’attrito. Fra le sue frasi che potremmo utilizzare per rappresentarlo forse ce n’è una, molto economica, che può sintetizzare bene il Lee-pensiero: “Non voglio che ridiate grazie a me, ma nonostante me”. Per anni in coppia con Richard Herring (Lee & Herring), Stewart Lee ha inaugurato la sua seconda vita comica nel 2004 con lo spettacolo “Standup comedian”, dopo che si era ritirato dalle scene a fine 2000. Dal 2004 ha quindi sviluppato un discorso artistico totalmente personale che, a tutt’oggi, è ancora in pieno progresso (le date del tour, “Basic Lee”, coprono tutto il 2023 spingendosi fino al 25 aprile 2024). Ma cosa rende Lee un’istituzione in Gran Bretagna, benché la sua collocazione sia ben fuori dal perimetro mainstream? Nonostante sia – anche per sua stessa ammissione – l’anti-Michael McIntyre (McIntyre è probabilmente il comico inglese più popolare degli ultimi due decenni)? E soprattutto: come fa a far ridere dribblando quasi tutti i sacri precetti della comicità classica?
Si parlava di attrito, poche righe sopra. Lee, va specificato, è un maestro naturale. Ciò che fa ha spesso le caratteristiche della totale improvvisazione, ma i suoi copioni sono studiati al millimetro, inciampi e inconvenienti inclusi. I suoi testi, a loro modo, fluiscono, ma se amate l’hip hop non pensate al flow monocorde di 50Cent, bensì a quello creativo di un Wu-Tang all’apice della forma. I suoi testi fluiscono nonostante siano fondati sull’attrito e la tensione che, innanzitutto, crea col pubblico. Scientemente, non cerca di ingraziarselo o di ammorbidirlo con una coccola. Preferisce tenerlo sulle punte, incolpandolo di pigrizia, di scarsa elasticità mentale, addirittura suddividendo la platea in squadre, a seconda delle abilità (la squadra A è quella in cui milita il pubblico sveglio, la B quella dei meno reattivi). Fra i suoi sogni, quello di “registrare un completo sold-out, solo che in teatro non si presenta nessuno, il che eliminerebbe il problema principale di tutto il mio lavoro: la costante incapacità del pubblico nel riconoscere la mia genialità”. Il personaggio Stewart Lee si esprime così. In pochi conoscono il Lee reale, ma tanti hanno ormai imparato ad amare il personaggio che porta sul palco, un liberale “middle-class” talmente convinto di avere la verità in tasca, talmente convinto della sua assoluta superiorità da risultare alcune volte completamente folle, altre volte tragicamente illuso di una grandezza (individuale, ma anche della élite che vorrebbe rappresentare) non giustificata. Ogni spettacolo di Lee è lo spettacolo di un uomo che fa a botte contro il resto del mondo. Colpendo spesso anche sé stesso e, appunto, chi dovrebbe stare dalla sua parte: il proprio pubblico (“Voi, lassù nel loggione. Voi siete i peggiori: quelli che sono qui perché trascinati da un amico”).
Despota irresistibile ed eccelso affabulatore (l’episodio di “Comedy vehicle”, stagione 4, in cui commosso ricorda i comici deceduti per poi rivolgersi ai presenti accusandoli di essere stati loro, in fondo, ad aver ucciso Robin Williams), Lee tesse trame elaborate rallentando i tempi della comicità televisiva fino all’esasperazione. Mai un tormentone – se non per ironizzare sui tormentoni –, pochissime le battute pure (“In questo spettacolo ci saranno quattro battute, che vi segnalerò al momento opportuno. A riprova che le battute, se voglio, le so fare. È solo che scelgo di non farle”). Ecco di nuovo l’attrito: Lee conosce perfettamente l’arte del “perfect joke”, ma ne prende le distanze. Preferisce, piuttosto, buttare via una battuta (dicendola di fretta, nel momento meno indicato o senza la giusta enfasi) e prendere atto, istanti dopo, della tiepida reazione del pubblico. E cosa fa, a quel punto, davanti a quella che per un comico “normale” dovrebbe già costituire una Caporetto da far vacillare ogni sicurezza? Spiega la battuta destrutturandola. La smonta, la analizza e la rimonta davanti a un pubblico spesso incredulo ma giubilante, prendendosi gioco del più banale dei comandamenti: mai spiegare una battuta. La “observational comedy”, la comicità che trae spunto dalle piccole situazioni della vita quotidiana, è un altro nemico giurato di Lee (non il tipo di comicità di per sé, va specificato, bensì i tanti replicanti che non si sforzano minimamente di re-interpretarla). Emblematici due momenti, fra i tanti, in cui Lee annuncia al pubblico che, per facilitarlo, farà un po’ di “observational comedy”. Nel primo caso si autosabota citando un programma televisivo – l’oggetto condiviso che dovrebbe “unire” il pubblico nella comprensione della gag – talmente dimenticato, e quindi lontano dall’appartenere a una sorta di “memoria collettiva”, che solo tre persone del pubblico ammettono di ricordarlo (la gag perciò parte in salita. Perché non nasce su quella porzione di terreno comune che è prerogativa della observational comedy). Nel secondo, parlando in modo rilassato e confidenziale dei rapper (come se lui e il pubblico stessero percorrendo la medesima strada del medesimo quartiere), si lancia in osservazioni così ripetitive e superficiali da risultare tutt’altro che vivide e convincenti. È questo il suo modo, senza dubbio obliquo, di affermare che la observational comedy in tanti casi altro non è che una scorciatoia per arruffianarsi la simpatia e la complicità del pubblico. Un voto sulla fiducia a cui Lee non tiene affatto. Un voto sulla fiducia fondato sulla retorica secondo cui il comico che sta sul palco conosce il proprio pubblico perché questo è identico a lui e, a sua volta, il pubblico ama il “suo” comico perché lo sente vicino, quasi un confidente. In quanto a nemici o avversari anche Jeremy Clarkson e “Top gear”, però, non scherzano. I presentatori di “Top gear” vengono descritti come un trio di bulletti che giocano a fare i fighi colpendo gli obiettivi più indifesi. Target prediletto, fra i tre conduttori, Richard “The hamster” (“Il criceto”) Hammond (“non è un vero criceto”, ci tiene a precisare Lee). E quando salta fuori “Top gear” negli spettacoli di Lee? Varie volte, una fra tutte quando parla delle passioni televisive di Anders Breivik, il terrorista norvegese filo-nazi che nel 2011 fece fuori settantasette persone. Ma non c’è solo il programma di motori più celebre di questo secolo fra i proscritti. Nella lunga lista nera di Lee figura anche “Mock the week”, popolarissimo show britannico andato in onda per 17 anni (fino al 2022) su BBC Two, in cui imperversava Frankie Boyle, comico di riferimento di una comicità politicamente scorretta (anche questa tutt’altro che coraggiosa poiché diretta, secondo Lee, verso i più deboli).
Se per anni la destra (o i Conservatori, in Inghilterra) ha trovato terreno fertile nell’accusare la sinistra di un insopportabile senso di superiorità, ecco che Lee gioca con questo senso di superiorità sbandierandolo davanti a tutti, compreso sé stesso. E a differenza di tanti nostri comici di razza – tecnicamente ineccepibili, ma molto cauti nel prendere posizioni vere, sempre molto “diplomatici” con i potenti – lo fa a carte così scoperte da apparire quasi naif. “Cos’è la élite liberale metropolitana? Secondo Gary Bushell del Daily Star, se siete qui stasera davanti a me, beh allora siete voi […] Penso che l’élite liberale metropolitana siano persone che preferivano il partito Laburista negli anni ’90, quando somigliava a un mucchio di spacciatori di cocaina in un’agenzia pubblicitaria. A differenza di oggi, in cui il Labour somiglia a Catweazle e il suo esercito di furiosi clochard che si accapigliano, fino alla morte, per sgraffignare una bottiglia di sidro in un parcheggio del Lidl”. Conoscete un comico di sinistra, in Italia, che sarebbe capace di fare satira in modo così netto sulla propria – “sempre limpida” – coscienza? Lee – non c’è pericolo – mai fonderà un partito politico. Sarebbe invotabile. Quando predica lo fa in modo talmente pedante ed eccessivo da assumere le fattezze di un invasato che a Hyde Park non vuole lasciare il proprio “corner”, così che il pubblico, disorientato, non capisce più se l’obiettivo della sua tirata è il contenuto della predica o fare satira sui predicatori (una battuta, in particolare, prende di mira la scarsa comicità dei predicatori. Dando voce a un tizio qualsiasi che parla con un ipotetico spettatore di un suo spettacolo, dice Lee: “Ti sei divertito allo spettacolo di Stewart Lee? No, ma ero d’accordo su tutto”). Sera dopo sera, teatro dopo teatro, Lee si lancia in una performance che a tratti ha a che fare anche con l’illusionismo. Talvolta ti ritrovi a ridere e non sai perché. Perché hai seguito fino in fondo un ragionamento che è giunto alla sua più logica conclusione partendo però da premesse errate? Perché ti è piaciuto qualcosa che “somigliava a una battuta” o perché ti sei divertito a farti convincere da Lee che quella gag fosse la gag più perfetta a cui hai mai assistito?
Armando Iannucci (tra i migliori autori di commedia inglese mai esistiti) e Chris Morris (tra i comici più innovativi e dirompenti mai apparsi in Gran Bretagna) si sono divisi fra loro le quattro stagioni di “Comedy vehicle”, il programma che Lee ha portato nella seconda serata della BBC Two fra il 2009 e il 2016. Le prime due a Iannucci, le altre due a Morris. Il loro compito? Intervistare Lee fuori scena. Incalzarlo, cercare di spodestarlo, di mettere a nudo i suoi bluff. Le interviste, a spezzoni, intervallano lo spettacolo, si interpongono fra le varie routine. E anche qui accade qualcosa di unico. Lee non si nasconde mentre è messo alle corde da una sorta di Inquisizione (nulla a che fare con un banale “roasting” all’americana) che lo spettatore fatica a riconoscere: sono interviste serie o ironiche? Siano quel che siano, Iannucci e Morris colpiscono duro, quasi quanto Lee sul palco, e così in quei frammenti tutto si ribalta: l’aggressore, nello spazio di qualche minuto, diventa l’aggredito. Si tratta di una comicità stratificata, estremamente remunerativa, a patto di non perdere la pazienza, certi che alla fine il premio arriva. Come quando Lee afferma di essere un conoscitore di formaggi: “Conosco tutti i formaggi [Segue una lunga pausa, come se stesse pensando a tutti i formaggi da elencare]: Red Leicester [altra pausa]. Conosco tutti i formaggi [e cambia discorso, limitando l’elenco ad un solo nome]”. Sì, bisogna fare un piccolo lavoro per aggrapparsi alla sua visione dello stand-up. Chi potrebbe fare un pezzo di cinque minuti contro Alan Bennett, reo di averlo recensito in modo ampiamente lusinghiero, ma utilizzando riferimenti così accademici e dotti da trasformare quella recensione – a tratti impenetrabile – in “un bacio della morte”? In fin dei conti Lee – uno dei dieci esseri umani più anti-social media attualmente sul pianeta –, per capirlo appieno, ci rimanda niente meno che a Bertolt Brecht: “Uso spesso la “Brechtian alienation”, ha affermato durante uno spettacolo. Di cosa si tratta? Di “un effetto di distanza – dice la Treccani – che l'attore suscita nello spettatore non identificandosi con il personaggio o con l'ambiente, ma rappresentandolo, grazie alla recitazione e, secondariamente, alla musica e alla scenografia, come diverso da sé, fino a farne qualcosa di noto e di estraneo al tempo stesso”. Se quindi, per la tremilionesima volta, ci ritroviamo a parlare di omologazione lamentando che oggi tutto s’assomiglia perché l’unica folle corsa sembra quella verso il consenso mediato dai social, allora affidiamoci a Stewart Lee. Credetegli e non sarete delusi. Sperando, ad esempio, che il lungimirante Gianmario Longoni, direttore artistico del TAM Teatro Arcimboldi Milano, dopo aver portato in Italia John Cleese e Jim Jefferies, faccia un pensierino a Stewart Lee.