Dovremmo accusare di sessismo e banalità forse anche molta storia del cabaret, dell’avanspettacolo, persino della commedia italiana. Il nudo sotto la doccia non è mai diventato iconico, soltanto una costruzione ruffiana di quel che probabilmente non si realizza mai veramente, quel tipo di donna o di liaison. La pacca sul sedere, la strizzatina di capezzolo, o non so Pierino e Lino Banfi come archetipo del maschione imbranato, con gli ormoni fuori posto. Con buona pace della Cortellesi e di Biancaneve. Non che c’entri esattamente con l’epopea degli influencer (spesso donne per l’appunto), ma probabilmente un legame intrinseco potrebbe stabilirsi. L’influencer standard deve mantenere una forma di vaghezza, di faciloneria stucchevole, una suadente ordinarietà che si esprime nell’ordine e nel conforme. Serve al brand, al marchio. A tutti gli inglesismi usati nella fattispecie in fondo per non dire nulla. I fatti generatori non inducono mai alla parola, men che meno sacra e portatrice suo malgrado, per un destino altrettanto segreto, di verità insondabili, ne mantengono un’ombra, un brano, agganciato tenacemente nella funzione che in essa contiene. I fatti nello specifico tuttavia ingenerano solo immagini, tornando al mondo del turbinio inutile e incoraggiante (non ci sarà di meglio che la normalità ben pettinata). Prima delle influencer, definite con l’esotismo dovuto alla liquidità coeva di ogni pulsione e sentimento, c’erano le letterine, le veline, e prima ancora le adolescenti dell’acquario di Boncompagni, il programma televisivo Non è la Rai. Un cult su cui ancora si potrebbero spendere parole, obiezioni, e perché no qualche aggiustatissima imprecazione.
Il vezzeggiativo o diminutivo per indicare le ragazze sul bancone (vedi Striscia) non mi riappacifica con una certa idea maschile. Idea del sesso, del corpo della donna, del desiderio e del motivo di un’erezione persino. Frivolo e pedantesco sono gli aggettivi che potremmo usare per geometrizzare il cosiddetto fenomeno, ovvero gli influencer, diramazione elettrica degli stemperati opinionisti, specie di dinosauri della categoria oramai, cariatidi che da uno spalto della tv sembrano enunciare polvere dai sepolcri. Le adolescenti del programma di Boncompagni hanno evocato quel che oggi è, annunciato con le moine antesignane, gli auricolari, la voce tonante e limpida della corista che doppiava la loro, piccolina e modesta, non erano altro che anticipazioni o un vero e proprio spam diremmo oggi. Non dico una fregatura, un abbaglio che millantava talento. Il talento era di qualchedun’altro al limite, al limite veniva fuori sotto mentite spoglie. In definitiva, non c’era niente, una proiezione ingannevole, si costruiscono imperi “ferragneschi” su proiezioni ingannevoli. Polveri rosate su pandori natalizi. Composizioni mirabolanti, benefiche e perfettamente inutili. Il pandoro dallo zucchero rosa è la celebrazione superba dell’inutilità, del perdere tempo per niente. L’edicoletta con gli specchietti inforcati sulle allodole, che saremmo noi, beoti, splendidi e riverberanti come tumidi mosaici. Noi che credevamo davvero alla voce da soprano della ragazzina tutta moine e fossette nel programma del pigmalione Boncompagni. Non era la sua voce, era la voce di una corista, ma chi se ne importa. Era una balla. Sì, ma costruita bene. Oggi nel gergo delle tiktoker si chiama: lipsync. Così si edificano medietà, si sommano talmente bene che risulta davvero difficile distinguere l’erba buona dalla gramigna. Il talento dalla banalità. Perché è tutta qui la questione, il talento è l’apripista, c’è una rivelazione in attesa, possiamo appellarci ad essa con il nome di verità, o della confinante coscienza, critica ancora meglio. Eppure, tranquilli, niente da fare.