È iniziato il conto alla rovescia dell’indigenza. Purtroppo per 660 mila italiani che vivono sotto la soglia della povertà, è giunta l’ora delle decisioni irrevocabili del governo Meloni: a partire dal 1° agosto 2023, i percettori del reddito di cittadinanza considerati “occupabili” non vedranno più un centesimo. La manovra finanziaria ha confermato che questi 400 mila nuclei familiari, il 39% circa degli attuali beneficiari, finiranno senza alcun sostegno. Per il 2024 si attende l’abolizione completa della misura entrata in vigore nel 2019 sotto il Conte 1, provvedimento-bandiera del Movimento 5 Stelle. È presumibile che al restante 61%, cittadini con più di 59 anni o con disabili o minori a carico, sarà riconosciuta un’altra qualche forma di sussidio, onde evitare un terremoto da più di 1 milione di famiglie abbandonate al loro destino. Maria Teresa Bellucci, viceministra al Lavoro, ha parlato di un non meglio specificato “nuovo strumento” che “guarderà con la massima attenzione a tutti coloro che non possono fare a meno del welfare” (Avvenire, 21 dicembre 2022).
Il criterio della cosiddetta “occupabilità” è ben lungi da essere neutro: come ha scritto LaVoce.info, “mentre a livello internazionale viene sempre definita su base individuale”, la destra a Palazzo Chigi ha pensato di introdurre “un’inedita concezione su base familiare”, una “novità assoluta per l’Europa”. In sostanza, le persone che perderanno il reddito fra otto mesi non sono state selezionate in base alla probabilità individuale di trovare lavoro, ma solo valutando la composizione del nucleo di cui fanno parte. Un “mal concepito criterio di protezione di alcune famiglie” a discapito di soggetti non meno fragili come, in particolare, le donne e uomini soli di mezza età (ben il 73%, e più al Nord, dove i singles e le coppie senza prole sono di più). E comunque temporaneo per tutti, per lo meno nella sua forma attuale. Questo senza contare che, dati Istat alla mano, gli “occupabili” in realtà sono molto poco occupabili, essendo al 70% con un livello di istruzione fermo alla scuola dell’obbligo e al 65,5% residente nel Mezzogiorno, con un’età media fra i 45 e i 59 anni. Dopo aver rivolto un appello, qui su MOW, a chi usufruisce del RdC per dare la propria testimonianza, ne abbiamo raccolto tre, che potete leggere qui di seguito.
Un “non occupabile”, perché con 63 primavere alle spalle, è il signor Antonio Fucile, di Napoli. Licenza di terza media, ogni mese, da maggio 2019, prende quel che di fatto, viste le difficoltà del mercato del lavoro e dei “navigator” nei centri per l’impiego, è stato sempre un sussidio di disoccupazione. “Ho ricevuto sempre la stessa cifra: 500 euro”. Antonio, per gli amici Tonino, dorme in una stanza ammobiliata di un’amica, a cui paga le sua parte di bollette. “Ed è grazie al reddito che riesco a pagare quelle e anche i farmaci che assumo per qualche disturbo che ho, oltre naturalmente al cibo e ogni tanto un paio di scarpe”. Separato, ha un figlio di vent’anni: “Gli do 50 euro ogni mese, me ne restano 450”. Alla fine degli anni ’90 lavorava con il fratello a una pompa di benzina, poi chiusa. “Ho fatto sempre lavori in nero: vendevo ai mercatini, per tre anni ho fatto volantinaggio, ovviamente sottopagato, e ho fatto anche assistenza agli anziani. Per un periodo non ho lavorato, quando stavo con mia moglie stavo bene; è con la separazione che ho cominciato a non aver più nulla di che vivere”. Prima del 2019 prendeva il Rei, il reddito di inclusione voluto dal centrosinistra: “Ma erano appena 180 euro…” (l’importo medio era 269 euro, per una spesa complessiva di 2 miliardi annui).
Quando il governo gialloverde tre anni fa introdusse il reddito di cittadinanza, per Antonio è la felicità: “Mi sono sentito risorgere. Non avevo più l’assillo della sopravvivenza. Finalmente un po’ di dignità”. Gli facciamo notare che, specie al Sud, ma non solo, sono legioni i percettori che affiancano all’aiuto pubblico un’occupazione irregolare. È uno dei motivi di contestazione a ciò che i critici definiscono assistenzialismo: si erogano soldi di tutti a quei non propriamente pochi che sbarcano il lunario in nero. Per Antonio la realtà va giudicata diversamente: “Il lavoro c’è, ma precario, per mezze giornate, e in nero, appunto. Sinceramente, posso capire che chi può contare su soli 500 euro arrotondi: lo fa per necessità. Io ormai alla mia età che posso fare? Nulla. Il navigator mi ha fatto la scheda nel 2021, e poi non ho più sentito nulla. Ci sono miei coetanei letteralmente provati, che non hanno mai lavorato in regola”. Ci sono anche i truffatori veri e propri, che si intascano la somma non avendone bisogno. “Certo, ma dappertutto c’è chi fa il furbo. Ci sono pure i falsi invalidi: che facciamo, aboliamo gli assegni di invalidità?”.
Ci sono anche i ragazzi, però. Quelli, la buona salute, come si dice dalle sue parti, la tengono. “Io trovo giusto che i giovani, e per la verità anche gli adulti, rifiutino lavori da 30 euro a giornata. Perché di questo parliamo. Se uno venisse pagato 1000 euro con tasse e contributi, perché dovrebbe accettare i 550 euro di media del reddito? Facciano più controlli e ispezioni se serve, ma evidentemente non li fanno per favorire le imprese”. Tonino pensa che la scelta di togliere il reddito sia dovuta a una “questione ideologica”, ovvero frutto di “un pregiudizio”: viviamo in una “società classista”, dove “non ci si immedesima in chi non ce la fa”. E per giunta, anche stupida, poiché, sottolinea, “i soldi mica ce li teniamo: li spendiamo, vengono subito rimessi in circolo. Ricordo che soltanto 100 euro, nel mio caso, mi vengono dati liquidi”. E aggiunge, riferendosi alla sua Napoli: “Ho conosciuto ragazzini che solo grazie al RdC si sono tolti dalla malavita e dallo spaccio. Nessuno di loro direbbe di no a un’assunzione dignitosa. La manovalanza a basso costo, invece, fa comodo a tanti”. La verità di fondo, secondo lui, è amarissima: “Questi non vogliono fare la lotta alla povertà, ma ai poveri. Accanirsi così, lo trovo ignobile. Prima del reddito, io dovevo scegliere se comprarmi le scatolette di farmaci, che è 15 o 20 ciascuna, o mangiare. Capito?”.
Michela D’Alpaos, per tutti Micky, vive a Vicenza, nel Veneto-eccellenza di Luca Zaia. Ha 52 anni, e ha la sfortuna di essere – paradossi dell’era Meloni - “occupabile”. A differenza di Tonino, può già dire addio al reddito, dal prossimo agosto in poi. Anche lei ha la terza media (“ho fatto tre anni alle superiori”), e dopo gli inizi, ai primi ’90, come segretaria amministrativa, in cooperative e in una fabbrica per occhiali, ha lavorato per vent’anni, fino al 2015, in un’impresa metalmeccanica. “Mi hanno licenziata per i miei problemi di ansia e depressione, ma ero caporeparto”. Le è stata riconosciuta un’invalidità del 60%, “anche se ora sto meglio”. Tuttavia, precisa, “sono in lista protetta all’ufficio collocamento per agorafobia con disturbi di panico”. Agli esordi del RdC, nel 2019, le arrivano 70 euro: “perché si basavano sull’Isee degli ultimi anni precedenti. Poi, con l’Isee a zero, sono diventati 620, e in seguito, con l’affitto a 400, oggi prendo 780 euro”. Il massimo. A Micky, il luogo comune per cui i destinatari del reddito di sopravvivenza sarebbero dei “fannulloni”, proprio non va giù: “Mi offende profondamente. Ho fatto corsi di formazione al Comune e alla Cisl, che mi hanno riconosciuto. Sono andata al sindacato per capire come cercare lavoro, che cerco ogni giorno su internet. Ho inviato curriculum. E non ho mai lavorato in nero”. Ci sono imprenditori, specialmente nella ristorazione e nei bar, che si lamentano perché il reddito scoraggerebbe la domanda. “Ma danno paghe da fame! Io, a fare la lavapiatti, non dico di no per principio. Ma bisogna vedere se riesco a viverci”.
Quando nel periodo iniziale a un certo punto gli era scaduto il reddito, Micky ha tirato avanti grazie a sua madre e “a qualche amico che mi ha fatto la spesa”. Ma deve ancora pagare “6 mila euro di affitti arretrati, per fortuna che il padrone di casa non mi ha mai sbattuto fuori”. In questi anni, anche il Comune ha fatto il suo, pagandole le bollette per un anno: “Ora, se sono alte, le dilaziono, che posso fare?”. Quanto a un lavoro, a parte il navigator “da cui non ho avuto nessuna proposta”, il suo problema è che non ha l’auto: “Per questa ragione purtroppo non ho potuto accettare un’opportunità in zona industriale in una ditta di spedizioni”. C’era quasi, insomma. La sua vita la descrive così: “Faccio la spola da casa mia a mia mamma, che ha 92 anni e non è più del tutto autosufficiente. Quando morirà, rimarrà sola, visto che mia sorella e mio fratello non mi hanno mai dato una mano”. Le persone sole, già: come dicevamo, saranno le più colpite. “Ho passato le notti a piangere, fino ad avere quei pensieri che puoi immaginare. Quest’anno, a differenza degli scorsi, almeno starò assieme a Capodanno con la mia migliore amica, che ha avuto le sue difficoltà anche lei. Lei e il suo moroso hanno deciso di stare con me. Io lo capisco, che ognuno ha i suoi problemi. Ma per chi è solo è più dura”.
Occupabile è anche Alessandra Rossati. Torinese, 47 anni, laureata all’Accademia di Belle Arti, vive con il reddito fin dal 2019: “fra i 600 e i 700 euro”. Abita con la figlia maggiorenne. Racconta di essere stata contattata di recente, a novembre, dai servizi sociali, ma “mai dal centro per l’impiego”. È invalida al 35% alla zona lombare. La sua grande occasione lavorativa risale al 2010: “Da quell’anno al 2014 ho avuto un lavoro in proprio nella ristorazione assieme al mio ex marito, che è cuoco. Poi si è ammalato, e con il lavoro ho perso anche la casa che avevo in garanzia, ed è stata la nostra rovina”. Ammette di aver fatto come tanti: “Ho lavorato in nero come donna di pulizie, nell’assistenza a psichiatrici, come domestica. Mi è stato anche proposto di fare la badante a 4 euro l’ora”. 4 euro l’ora. Conosce personalmente tre persone che percepiscono il reddito e contemporaneamente svolgono qualche mansione in nero: “Tutti precari, ovviamente: una badante, una baby sitter, un imbianchino”. Per fortuna, dice, che “il metabolismo economico mio e di mia figlia è molto basso, ma per comprare delle scarpe a lei devo integrare con la pensione di mia madre, che vive da sola”. Va rilevato, all'inverso, che 200 mila titolari del reddito sono lavoratori che ne hanno diritto a integrazione di contratti di lavoro di valore inferiore al limite della povertà, che a seconda delle regioni varia fra i 552 e gli 819 euro al mese.
Le scarpe e la pensione dei genitori: potrebbero essere considerati i simboli ricorrenti del disagio e del modo spontaneo per correre ai ripari (il cosiddetto “welfare familiare”, cioè il denaro pubblico che affluisce via Inps alla generazione degli over 70 ormai, appartenenti a un’epoca di ricchezza e sicurezza sociale terminata grossomodo trent’anni fa). Sulle accuse ripetute al RdC di fare terra bruciata di lavoratori, o di lasciare al caldo chi non avrebbe voglia di sgobbare, Alessandra è netta: “In realtà è di alcuni settori che si deve parlare. Quello che conosco meglio io, la ristorazione, posso dire con cognizione di causa che è un inferno: ti danno 800 euro in busta e magari, all’inizio, anche mille fuori busta, ma poi questi te li tolgono e non te li danno più”. Il futuro, quando scatterà l’ora X l’anno venturo, lo vede “se non nero, livido. Ho provato a lasciare curriculum a mano in negozi e supermercati, ma il problema è l’età”. Insomma, non ha la più pallida idea, al momento, di come riuscirà a sfangarla. “Anche mia figlia, diplomata in scienze umane, ha cercato lavoro, anche qualcosa di manuale come fare la calzolaia, ma finora le hanno detto di no”.
Alessandra ha le idee piuttosto chiare, sul reddito di cittadinanza: “Io sarei per il reddito di base universale. Così si alzerebbero tutti i minimi di stipendio”. Neanche il M5S, a parte un recupero tardivo di Beppe Grillo, ha mai davvero preso in considerazione l’ipotesi del basic income incondizionato, che ovviamente costerebbe molto di più degli 8 miliardi di spesa per il RdC condizionato - all’accettazione di tre proposte di lavoro, poi passate a due e oggi a una - com’è stato concepito e messo in pratica nella realtà. Quello di innalzare il tenore di vita generale, del resto, è la logica stessa di un sistema simile. Ma secondo Alessandra, nella società italiana si sconta “una mentalità iper-lavorista, per cui chi non lavora o riceve un sussidio deve essere colpevole e si merita lo stigma sociale. Sai come me lo spiego io, questo sentimento diffuso di rabbia contro chi prende cifre così misere? Con l’invidia del povero. Un’invidia alla rovescia, di chi sta meglio verso chi sta peggio, da parte di coloro a cui lavorare deve costare davvero tanto”. La frustrazione di chi, pur stando relativamente bene sotto il profilo economico, non sta bene nella propria pelle, magari perché lavora troppo in cambio di troppo poco. “Ne conosco di tipi così. Me ne viene in mente uno in particolare: era il vicino di una mia amica, eravamo a casa di lei, a una cena. Lui di mestiere fa la guardia carceraria. A un certo punto si parla del reddito e il signore sosteneva con foga che bisognasse eliminarlo, ‘così sarete obbligati a spazzare i marciapiedi’. La mia amica, che vive grazie al reddito, l’ha sbattuto fuori di casa”.