L'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio di Berlusconi: "La figura del presidente della Repubblica sta bene così". La riforma costituzionale presentata dall'attuale governo "fatalmente" ridurrebbe i poteri del presidente della Repubblica, "perché la forza che ti deriva dall'investitura popolare è certamente maggiore di quella che deriva dal Parlamento: non è scritto, ma è ovvio che poi nella dialettica chi è investito ha più forza". Lo ha affermato Gianni Letta, ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, intervenendo ad un evento dell'associazione “Progetto Città di Firenze”. Gianni Letta è un uomo di grande potere e si è formato, nella sua carriera di giornalista e di politico, nell’alveo dei principi cardine della nostra Costituzione. Breve biografia (poco conosciuta) del personaggio. Il 1959 si può definire l’anno cruciale per la nascita del salotto più importante d’Italia, dove è stata scritta la storia di questa nazione e non solo. All’improvviso in quell’anno, nella vita dell’editore de Il Tempo, compaiono due nuovi protagonisti. Renato Angiolillo conobbe Maria Girani e Gianni Letta, e acquistò Villino Giulia in Piazza di Spagna a Roma. Letta nacque nel 1935 ad Avezzano, in provincia dell’Aquila, dove durante gli studi universitari in Giurisprudenza lavorò come operaio in uno zuccherificio del posto di proprietà dei principi Torlonia fino a diventare direttore del reparto chimico e sposare la figlia del direttore generale, Maddalena Marignetti. Il nonno paterno, Guido, era stato prefetto ed era conosciuto per il suo passato fascista. Aveva ricoperto incarichi prestigiosi durante il regime come prefetto di sedi importanti per diversi decenni e ricordato nel suo paese d’origine, Aielli, in provincia dell’Aquila, «come un instancabile benefattore». Con un nonno prefetto, un papà avvocato e una laurea in legge, Gianni Letta mosse i primi passi verso la professione forense nello studio paterno. Nel 1956 passò alla carriera giornalistica, corrispondente dall’Aquila per la Rai e l’Ansa. Nel 1958 inizia a collaborare con il giornale conservatore di Roma Il Tempo come caposervizio della redazione aquilana. Aveva delle buone referenze il ragazzo e, nel 1959, si trasferisce negli uffici romani di Piazza Colonna. A quanto pare, gli entusiasmi degli estimatori del giovane Gianni furono condivisi da Renato Angiolillo. Gianni e Renato avevano molte cose in comune: entrambi di origini provinciali, entrambi laureati in legge e figli di avvocati, entrambi erano componenti di una famiglia con otto tra fratelli e sorelle. Gianni Letta piacque subito al direttore Angiolillo. Arrivato a Roma, si alternò immediatamente tra due attività: giornalista a Il Tempo e addetto ufficio stampa, fino a reggerne le redini, della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro. Un incarico quest’ultimo strategico per allacciare amicizie utili a lanciare una brillante carriera giornalistica. Sempre nello stesso anno e dopo la conoscenza di Maria Girani, Renato Angiolillo acquistò una casa a Piazza di Spagna, sullo stile del romanzo dannunziano Il Piacere, che divenne il tempio ispiratore della vita quotidiana di Renato. O per lo meno questo raccontò il giornalista e amico onorevole Alberto Consiglio, che meglio di altri lo conosceva. Renato, sin da giovane, si era immedesimato nel protagonista dannunziano, Andrea Sperelli, che fa di Palazzo Zuccari in Piazza di Spagna la sua amatissima dimora. Allo stesso modo, Renato Angiolillo scelse, come sua residenza romana, la casa del suo romanzo preferito. Una piccola reggia a Rampa Mignanelli numero 8. Si tratta di Villino Giulia, che affaccia sulla più famosa e bella scalinata del mondo, Piazza di Spagna. La casa apparteneva a Bruno Pazzi, un ricco imprenditore originario, come il collaboratore preferito Letta, di Avezzano. Pazzi, commissario Consob per volere del “Divo” Andreotti e arrestato a luglio 1993 con Mani Pulite, all’epoca era proprietario di una distilleria, famosa per aver creato il marchio di brandy Cavallino Rosso, ma possedeva e gestiva anche importanti sale cinematografiche a Roma. In seguito, diventerà Cavaliere del Lavoro. Il proprietario di quella villa aveva lo stesso dispendioso vizio di Renato Angiolillo: amava il gioco d’azzardo, l’ippica in particolare. E attraverso la frequentazione degli ippodromi, Renato fece l’affare.
L’acquisto venne ufficializzato in occasione delle nozze con Maria Girani nel 1960, ossia con la donna che diventerà la regina di quella dimora, insieme a Gianni Letta, il più fido collaboratore di entrambi. Maria assunse sempre di più il ruolo della perfetta compagna per Renato Angiolillo. Vivevano lì, a Villino Giulia, da soli. I loro rispettivi figli minorenni, Marco Oreste Bianchi Milella, primogenito di Maria, e Amedeo Angiolillo, ultimogenito di Renato, vivevano a Roma in zona Porta Pinciana con zia Nuccia, la sorella più grande di Maria Girani. I fratelli maggiori di Amedeo, Mario e Giuseppe Gaetano, erano ormai adulti e vivevano autonomamente. In effetti, Villino Giulia non era stato concepito architettonicamente come una residenza familiare. Costruito negli anni ’20, il progetto risaliva a quarant’anni prima. È una struttura di 540 metri quadri dislocati su quattro piani, con un cortile-giardino interno di 300 metri quadri. Le camere da letto sono solo tre, i bagni quattro. C’è poi un terrazzo, e salotti, salottini e ancora salotti. Una grande sala da pranzo con tre tavoli, denominati Alba, Meriggio e Tramonto. Quest’ultimo era il meno desiderato. Ma il luogo più ambito dagli ospiti che hanno varcato la soglia di quella casa, il posto più importante per la storia d’Italia, era quel piccolo ascensore interno alla reggia che scendeva nella sala. L’ascensorino papale della capienza, al massimo, di due persone. Era il momento, mai casuale e sempre organizzato, per un vero e proprio appuntamento “a quattr’occhi”. Un appuntamento utile e ricercatissimo dagli illustri ospiti. Per le sue pubbliche relazioni, Renato aveva finalmente una sede fissa, e con Maria padrona di casa, un cerimoniale da rispettare. Arriviamo al tempo della “Dolce vita”. Gli affari del senatore Angiolillo procedevano a rilento. Il sogno della Tv privata era stato accantonato dopo la sentenza negativa della Consulta, ma Renato aveva già in mente un altro progetto: creare un vero e proprio network della stampa acquistando una filiera di giornali per avere il controllo dell’informazione cartacea su tutto il territorio nazionale. Insomma, doveva realizzare quel sogno mancato di espandersi anche al Nord dove, tra l’altro, a farlo da padrone tra i giornali di opinioni c’era la sinistra. Aveva bisogno dell’aiuto economico degli americani e anche in questo Maria aveva un ruolo fondamentale vista la sua stretta amicizia con la moglie di Henry Ford. L’appoggio della Cia, Renato lo aveva sempre avuto. Anche se gli americani non assecondavano Angiolillo senza una contropartita. Così, se Renato era l’uomo di punta sul territorio italiano, perché occorreva affidarsi a qualcuno che sapesse orientare le masse verso l’anticomunismo e che sapesse controllare le piazze, allo stesso tempo, doveva dimostrare l’utilità del progetto. Furono anni in cui a livello societario la seR subì cambiamenti sostanziali: liquidato il socio maggioritario, l’armatore Ernesto Fassio, Angiolillo tornò proprietario assoluto. Ma la gestione eco- nomica era sempre più pesante e, con l’aiuto dell’amico toscano Amintore Fanfani, marito di una delle più intime amiche di Maria, Renato ottenne i finanziamenti necessari, con l’ingresso societario di eni, per far andare avanti il suo giornale. Il progetto della formazione di un network non andò in porto ma, inconsapevolmente o meno, è proprio in quegli anni che la coppia Angiolillo-Girani, affiancata da Gianni Letta, mise in piedi il più importante salotto d’Italia. Intanto, le doti di mediatore di Gianni Letta si rivelarono una risorsa fondamentale anche per l’azienda. Divenne, infatti, portavoce del direttore Renato Angiolillo e poi amministratore delegato de Il Tempo. Gianni Letta, delfino di Angiolillo, erediterà tutto alla sua morte: direzione, agenda e amicizie. Infatti, dopo la morte prematura di Renato nel 1973, sarà lui a succedergli come direttore al giornale e ricoprirà quella carica fino al 1987, quando, dopo una breve parentesi con il Gruppo Monti-Riffeser, entra alla Fininvest di Silvio Berlusconi diventando in seguito vicepresidente di Fininvest Comunicazioni, uomo fidato e amico prediletto dello stesso patron Berlusconi, che nel 1990 lo sceglierà quale testimone alle nozze con Veronica Lario nonché come sottosegretario di Stato nei suoi governi. Da qui la carriera di quel Gianni Letta definito oggi «l’uomo del dialogo, mediatore, tessitore di trame e disegni politici».
Di lui scrive Marco Damilano: «Da direttore del Tempo, mai un editoriale. Da uomo di governo, mai un intervento in Parlamento. Ma Letta non ne ha bisogno: il suo è un potere che disdegna l’apparire, che non ha il problema di vincere le elezioni. È una rete di rapporti, amicizie, parentele. Molto trasversale: da Berlusconi a Veltroni, da Cesare Geronzi a Luca di Montezemolo. Da Giulio Andreotti Letta, ha ereditato i fondamentali dell’arte di governo: disinteresse totale per il partito (mai visto a un incontro di Forza Italia) e dedizione ai poteri che contano: il Vaticano (i cardinali Camillo Ruini e Giovanni Battista Re), i vertici dei ministeri, l’Opus Dei, le banche. La Rai con Bruno Vespa – pupillo dai tempi in cui Letta era il capo della redazione aquilana del Tempo – l’unico autorizzato a trascriverne qualche pensiero nei suoi libri». Siamo negli anni della “Dolce vita”, gli anni del boom economico. Roma era una città viva. Ormai la Seconda guerra mondiale era solo un lontano ricordo. Arrivarono in città personaggi che faranno di Roma la città eterna, la capitale del mondo. Quella “Dolce vita” celebrata nell’omonimo film di Federico Fellini. Gianni Letta con le sue doti da mediatore portava avanti l’azienda giornalistica in qualità di amministratore delegato. Renato Angiolillo continuava la sua vita: si recava spesso a Montecarlo dove dava sfogo al suo vizio, il gioco, anche con ingenti perdite. Inaugurava manifestazioni sportive, premiava iniziative meritevoli e comprava gioielli, al tempo un’abitudine riscontrata in tanti monarchi e potenti capi carismatici. Si racconta che Renato fosse ingordo delle sue gemme. Era solito tenere in tasca tre diamanti, il numero perfetto, per giocherellarci con le dita. Ne aveva acquistati talmente tanti da creare una vera e propria collezione con tanto di catalogo e perizia del più rinomato gemmologo del Novecento: Harry Winston, cittadino statunitense di origine ucraina. Come per tutti gli altri investimenti, Renato non acquistava i gioielli solo per il gusto di possederli o per irrefrenabile impulso. I miliardari allora, come adesso, investivano in pietre preziose anche per motivi fiscali. Quando sceglieva le gemme, faceva un investimento pensando essenzialmente al futuro dei suoi tre figli. Per questo si rivolgeva solo ai migliori rivenditori. Non gli importava dello sfarzo delle montature. Curava solo la bellezza e la rarità delle pietre. Tant’è che le assicurava tutte. È successo anche nel marzo 1973 quando, cinque mesi prima di morire, fece assicurare i preziosi. La stessa assicurazione che il nipote, Renato jr, ritrovò nel 2009 e da cui scaturì l’inchiesta penale sulla scomparsa del tesoro. Il salotto procedeva con i suoi incontri. Varcavano la soglia di casa Angiolillo le amicizie di Renato, uomini potenti e altolocati che spaziavano dalla politica agli ambienti ecclesiastici, oltre che ai potentati imprenditoriali. Tutti esprimevano quella cultura del saper vivere che tanto piaceva al senatore. Non mancavano, ovviamente, i salotti letterari visto l’amore del direttore per le poesie e il cinema. In fondo, lui stesso era stato poeta e uomo del jet set. Maria invece era una collezionista d’arte. Amava circondarsi di pittori e scultori. Non a caso, la univa un forte intimo legame con lo scultore polacco Igor Mitoraj, colui che ne ha immortalato le grazie nella Dea Roma, la statua che si trova sul lungotevere all’altezza di Viale Mazzini. In quel salotto, però, la specialità di Maria divenne favorire i poteri forti. Aveva sempre mirato al politico e uomo d’affari del momento. Tant’è che si era specializzata nell’incanalare gli affari dei suoi amici e dei suoi ospiti. La vita dell’alta società e i suoi ritmi non erano cosa sconosciuta per lei. Ma rispetto al passato c’era una differenza: ora era la signora Angiolillo, personaggio riconoscibile. E quei gioielli, che Renato acquistava, facevano impazzire di invidia tutte le altre donne quando venivano indossati da lei con grazia ed eleganza. Ce n’era uno in particolare. Il Princie, detto anche Pink Diamond. Una rarissima pietra rosa da 34.65 carati di cui Maria spesso ricordava l’antica appartenenza alla Maharani di Baroda. Di tutta la collezione Angiolillo, composta da collane di rubini, orecchini di smeraldi, spille di zaffiri a forma di lucertola, quel diamante era il più spettacolare e, quindi, il più chiacchierato. E Maria era la vetrina ideale per quei gioielli, che indossava sempre su montature semplici.
Intanto, il tempo passò. Arriviamo agli anni ’70 che videro la crescita dell’impero industriale di Attilio Monti. Nel 1966 Monti acquista la siall, Società industrie agricole ligure lombarda, che controllava la holding Eridania. Questa, oltre ad una posizione di forza nel mercato nazionale dello zucchero, aveva anche il controllo della Poligrafici Editoriale, editrice di due quotidiani di Bologna, il Resto del Carlino e lo sportivo Stadio, nonché de La Nazione di Firenze, sesto giornale italiano per tiratura. La scelta fece automaticamente di Monti un protagonista dell’editoria. L’ingresso nel mercato dell’informazione fu accompagnato da polemiche e dal sospetto che si volesse giubilare il direttore de La Nazione, Enrico Mattei, omonimo del fondatore dell’Eni, orientato politicamente a destra in una stagione nella quale Monti era vicino alla politica di centro-sinistra dell’allora presidente del consiglio Aldo Moro. Nel 1969 la Poligrafici Editoriale rilevò Il Telegrafo di Livorno e il quotidiano romano Il Giornale d’Italia dalla Confindustria: due acquisizioni che permisero al Gruppo Poligrafici di raggiungere le 600.000 copie di diffusione quotidiana. Siamo negli anni del cambio nell’assetto della società editoriale seR di Angiolillo, con l’uscita di Fassio e l’ingresso di Eni, la società energetica concorrente a Monti. L’altra mossa del senatore fu quella di spostare Gianni Letta dal lavoro di redazione a quello amministrativo, nominandolo prima consigliere delegato e poi direttore amministrativo di seR e TiCo, le due società che componevano il Gruppo editoriale Angiolillo. Da quel momento, Gianni Letta ebbe il potere di decidere sia l’assetto societario che la gestione del giornale Il Tempo. Nel 1973, all’inizio dell’anno, il senatore si accorse di sentire un forte odore di garofani che si accompagnava ad emicranie sempre più frequenti. Scoprì di avere un tumore al cervello. Si trattava di una delle peggiori neoplasie cerebrali: il glioblastoma multiforme. Ancora oggi, impossibile da curare. Le sue condizioni peggiorarono di giorno in giorno fino ad avere delle crisi epilettiche. L’8 aprile 1973 si ricoverò nella clinica privata Villa Giulia, ai Parioli. Fu sottoposto a due operazioni nel giro di pochi giorni ma già dal secondo intervento i medici capirono che le condizioni erano critiche. Tanto che, dopo aver ridotto l’edema e drenato il liquido cerebrale, la calotta cranica rimossa non venne neanche posizionata in una tasca sottocutanea per poi essere reimpiantata nella testa del paziente. Nel luglio 1973, le condizioni si aggravano e il 10 di quel mese subì una terza operazione per rimuovere il tumore. Gli fu asportata la materia cerebrale e nei giorni successivi drenarono il liquido cefalorachidiano per farlo analizzare. Dalla corposa cartella clinica risulta che nella settimana post-operatoria Angiolillo era incosciente e totalmente non autosufficiente. Eppure, pare che si sia ripreso subito dopo a tal punto che il 26 luglio 1973 dettò il suo testamento alla presenza del notaio Roberto Franci di Roma. Un testamento non firmato perché Renato non era in grado di muovere gli arti superiori. Il giorno dopo, cioè il 27 luglio, fu dimesso dalla clinica privata e trasportato nella sua amata tenuta sull’Appia Antica. Qui, nella maestosa struttura, il 1° agosto 1973 fu raccolto in presenza di testimoni un secondo testamento sempre pubblico, cioè dettato dal senatore al notaio. Anche questo testamento, scritto a mano dallo stesso notaio Roberto Franci, non è firmato da Renato in quanto incapace di farlo. Dal confronto dei due testamenti, emerge che la sostanziale volontà di Angiolillo non cambia. In realtà l’atto del 1° agosto 1973 si limita a rettificare il nome della società trascritta erroneamente sul primo testamento del 26 luglio 1973. Si tratta della società immobiliare Trinità di Spagna srl che erroneamente era stata denominata Trinità dei Monti srl. Quali erano le volontà del senatore per la sua eredità? Renato aveva lasciato in quegli atti di ultima volontà le quote societarie di Villino Giulia, con tutti gli arredi e le argenterie, alla consorte Maria Girani, in virtù di un matrimonio di dubbia legittimità. Nel secondo testamento, oltre alla correzione dell’errato nome della società, Renato Angiolillo nomina come esecutore testamentario il professore avvocato Filippo Ungaro di Lucera, in provincia di Foggia, affiancandogli due coadiutori, l’avvocato Franco Musco, vicino agli ambienti della DC, e il dottor Gianni Letta, presente anche alla compilazione di entrambi i testamenti e di fatto l’unico esecutore testamentario oggi ancora in vita. All’epoca non vigeva la riforma legislativa del diritto di famiglia, intervenuta solo nel 1975, per cui, salvo espressa pattuizione contraria, il regime patrimoniale tra coniugi prevedeva di regola la separazione dei beni e il coniuge superstite non diventava erede dell’altro ma restava solo mero usufruttuario di alcuni beni.
Quindi, ai tre figli di Renato Angiolillo, Mario, Giuseppe Gaetano e Amedeo, rimaneva tutto il resto dell’eredità del senatore. Ad essi andavano le azioni societarie de Il Tempo e la società Agricola Appia che comprendeva la villa sull’Appia Antica, la scuderia DoniX e altri immobili. E, cosa più importante per la nostra storia, i beni mobili di grande valore che non erano stati citati dal senatore nei due testamenti pubblici. Tra questi, i preziosi che si trovavano in Piazza di Spagna, scomparsi dopo la successiva morte della consorte di Angiolillo nel 2009. Quindici giorni dopo il secondo testamento, Renato Angiolillo si spense nella sua villa sull’Appia Antica. Era il 16 agosto 1973. La notizia, in piena estate, raggiunse tutto il mondo politico, giornalistico e imprenditoriale. Nonostante il periodo vacanziero, non ci fu un esponente di quei mondi che non abbia espresso cordoglio per la morte di Renato Angiolillo. Tutti parteciparono al dolore. Si contarono 5.000 persone. Dalle principali cariche istituzionali del governo nazionale, il presidente della Repubblica Giovanni Leone e il primo ministro Mariano Rumor, ai massimi esponenti della DC, Fanfani e Andreotti, tanto per citarne qualcuno. Persino il presidente degli Stati Uniti d’America, Richard Nixon, inviò un telegramma in cui definiva Renato Angiolillo «un campione di libertà e della pace che godeva di altissima stima non solo in Italia ma in tutto il mondo». Anche il Vaticano espresse pubblicamente il suo cordoglio. E poi i colleghi giornalisti. Eccezion fatta per la nota stonata del Corriere della Sera, tutti, dal Messaggero alla Stampa, dall’Avvenire all’Osservatore Romano, hanno riconosciuto al senatore i meriti e l’apporto dato al mondo professionale di appartenenza. Singolare fu la presenza al funerale di tutte le maestranze del Messaggero, giornale romano da sempre antagonista del Tempo. Tutti erano consapevoli che con la morte di Renato Angiolillo scompariva uno degli uomini che, per le sue qualità di mediatore, per i suoi rapporti con gli Usa e con il Vaticano, scrisse un pezzo di storia italiana che ancora oggi ha risvolti fondamentali.I funerali si tennero il 18 agosto 1973 nella Chiesa di Sant’Andrea delle Fratte. Il feretro fu spostato dalla villa sull’Appia a Piazza Colonna da dove la salma partì per l’ultimo percorso: dalla sede della sua redazione alla chiesa. Al funerale parteciparono in tantissimi, dai personaggi dai nomi altisonanti alla gente comune che aveva avuto modo di conoscere e apprezzare il direttore de Il Tempo. La redazione partecipò, ovviamente, all’unisono, compresa la segretaria personale di Angiolillo, Otillia Farella, che durante il funerale non riuscì a trattenere le lacrime. Da quel 18 agosto 1973, Renato Angiolillo riposa al cimitero di Prima Porta, a nord di Roma. La città eterna gli ha dedicato Largo Renato Angiolillo, situato oltre la riserva naturale della valle dell’Aniene. Dopo i funerali del senatore, toccò decidere cosa fare della società editoriale, ossia delle quote di partecipazione del senatore nelle società seR e TiCo. In altri termini, si dove- va decidere cosa fare della società Il Tempo. A decidere del futuro, furono Maria Girani e Gianni Letta con il consenso dell’ultimogenito Angiolillo, Amedeo. Le azioni di seR e TiCo, quindi il giornale, passarono nelle mani dell’ing. Carlo Pesenti, fondatore della Italcementi. Era questi un imprenditore molto vicino a Giulio Andreotti. Il Gruppo Pesenti, proprietario anche di Italmobiliare, già negli ultimi anni aveva avuto contatti con la redazione di Piazza Colonna. La proprietà Pesenti, su indicazione e pressioni di Maria Girani, come la stessa ha ricordato, affidò la direzione del giornale a Gianni Letta a dispetto di altri papabili direttori, quali Alberto Consiglio o Enrico Mattei, già direttore de La Nazione del Gruppo Monti. Gianni Letta, a soli 38 anni, accettò l’incarico che, inizialmente, doveva avere una durata provvisoria, quei 15 giorni necessari per riorganizzare l’assetto del giornale. Renato Angiolillo jr ricorda che proprio in quei giorni ci fu un tentativo di acquisizione de Il Tempo da parte di forze milanesi con l’avallo di Bettino Craxi. Tentativo a cui, secondo il nipote omonimo del senatore, avrebbe lavorato il papà Giuseppe Gaetano. Ma i rapporti tra Craxi e il duo Letta-Girani furono sempre diffidenti. Anche negli anni successivi. In ogni caso, Gianni Letta andò oltre quei 15 giorni di transizione e rimase direttore per circa 15 anni. Il giornale, dopo la morte di Angiolillo, non fece più quei record di vendite che aveva messo a segno nel Dopoguerra e passò da una tiratura di 300mila copie alle attuali 10mila giornaliere.