Possiamo dirlo sperando che il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, almeno una volta nella sua vita abbia visto “Il secondo tragico Fantozzi”? Il ticket da 5 euro per solo metter piede nella città più affascinante del mondo è una cagata pazzesca. Sappiamo che lui, non proprio tollerantissimo alle critiche, ci farebbe mettere sui ceci per punizione. Ciò nonostante insistiamo nel voler dimostrare perché questo dazio sia, nell’ordine: inutile; mistificatorio; iniquo (incostituzionale è da vedere, e comunque sarebbe, nella sostanza, il meno). Ma prima, uno spieghino per riassumere l’oggetto in questione. Il contributo d’accesso (che chiamato così, già confonde: non è un contributo, è obbligatorio) era stato previsto dal Comune lagunare già nella legge di bilancio 2019. La giornata d’esordio è stata via via posticipata per arrivare alla data fatidica del 25 aprile 2024. Si paga in giorni particolarmente “caldi”: per l’esattezza, al momento, ventinove, in una fascia oraria che va dalle 8 e mezza alle 16. In pratica, in questa prima fase sperimentale, tutti i sabati e le domeniche e le date festive fino al 14 luglio. Per pagarlo bisogna registrarsi al portale online cda.ve.it, versare 5 euro e ottenere il codice Qr da mostrare in un eventuale controllo. Alcune aree di passaggio ne sono escluse (come il piazzale della stazione Fs), così come fuori restano le isole più piccole e il Lido. Chi dorme in albergo, bnb o affittacamere paga già 5 euro di imposta di soggiorno, ma deve iscriversi comunque al sito e chiedere l’esenzione. Tutti sono tenuti al pagamento, fatta eccezione per gli under 14, per studenti e lavoratori pendolari, per i residenti della Regione Veneto, oltre ovviamente ai veneziani (e ai loro familiari fino al terzo grado). Sempre, però, previa registrazione web. Se ci si dimentica di prenotarsi e versare, lo si può fare anche in loco (in punti informativi o con le emettitrici automatiche della società di trasporto, oppure nelle tabaccherie, sebbene in quest’ultimo caso non si possa accedere all’esenzione). Chi venga beccato a fare il portoghese dai vigili e dai 120 steward del Comune, appostati o sguinzagliati all’uopo, rischia dai 50 ai 300 euro di multa amministrativa. Inutile. Ribattendo a chi accusa di voler solo “far cassa” (Gianfranco Bettin, sociologo e storico esponente dell’ambientalismo veneziano, ma anche Daniela Santanché, ministra del Turismo, contraria a tutte le tasse, incluse quelle utili soltanto “ad appianare i bilanci dei Comuni”), l’amministrazione Brugnaro ha negato recisamente: “non è questo lo scopo”. Sembra quella scena in cui il marito becca la moglie con l’amante e si sente proferire la famosa frase “non è come sembra”. Di più: secondo Brugny, quest’anno “spenderemo più di quanto incasseremo”. Nel bilancio comunale, l’introito previsto è di 700 mila euro, ma bisognerà vedere anzitutto quanto peseranno i costi (totem e stand informativi, i 120 addetti, la campagna promozionale, la gestione del portale ecc), e soprattutto quanti, vuoi per ignoranza del provvedimento vuoi perché furbetti, evaderanno la tassa di ingresso. Ma allora, se non è per rastrellare qualche gruzzoletto (nel primo giorno, i registrati sono stati 113 mila, i paganti 15.700, l’incasso 78.500 euro), a che cosa dovrebbe servire? Delle due, l’una: o è utile (economicamente), o è inutile. Secondo Jan van der Borg, docente di economia turistica alla Ca’ Foscari, il problema non sono le giornate di afflusso più pesante, bensì il superamento, spalmato su oltre 200 giornate ogni anno, della media capacità di carico della città. Inoltre, se la logica è di colpire gli “escursionisti”, i visitatori mordi e fuggi, non ha alcun senso esentare i veneti, che sono proprio quella categoria di visitatori che calano nei fine settimana contribuendo all’intasamento. Ma potrebbe esserci una terza opzione: è utile, sì, ma non solo all’erario comunale, quanto, anzitutto, per dare a Brugnaro un’arma propagandistica. Così può dichiarare al mondo di aver fatto qualcosa, contro la costante e inesorabile turistificazione di Venezia. In più di un’occasione, il comitato World Heritage dell’Unesco, l’agenzia culturale dell’Onu, ha chiesto di inserire Venezia nella cosiddetta danger list, la lista dei patrimoni mondiali dell’umanità in pericolo.
Mistificatorio. Secondo l’assessore ai tributi Michele Zuin, la finalità per ora sarebbe principalmente quella di raccogliere dati per passare alla fase 2 nel 2025. Questa fase 2 consisterebbe nel fissare limiti di capienza, oltre i quali chi si prenota pagherà di più (il doppio?). Ora, se due più due fa sempre quattro, siccome sempre di soldini si tratta, “difendere la città” (Brugnaro dixit) corrisponderà comunque a tassare. E le tasse, a casa nostra, entrano in un bilancio. Cioè, in soldoni, si fa cassa. E fra l’altro, senza offrire nulla in cambio. In risposta alla Santanché che coglieva questo decisivo punto, Zuin, in un’intervista al Gazzettino dello scorso febbraio, ha dichiarato, testualmente: “Non dobbiamo dare nulla: in cambio diamo la possibilità di una migliore fruizione della città a cittadini e turisti”. Un po’ vago, diciamo. Ma può esserci un’ulteriore ipotesi: magari ha ragione quel guastafeste di Bettin, nel sostenere che in realtà così si copre il vuoto di politica disciplinatoria sulle locazioni turistiche. Tradotto: si vara un bel provvedimento eclatante e in cui ci si guadagna pure (almeno in prospettiva), al posto di scelte dure, in termini elettorali, poiché andrebbero a toccare gli interessi dei locatari, ovvero del business, oggettivamente devastante, che desertifica Venezia condannando i veneziani all’estinzione. Si potrebbe fare: nel 2022 un emendamento al decreto Aiuti-bis prevede un limite di 120 giorni per gli affitti brevi. Sarebbe già un passo avanti. Naturalmente, le associazioni di categoria hanno urlato alla “criminalizzazione” del settore. Figurarsi.
Iniquo. A meno di non tornare con la memoria al Medioevo, è la prima volta che una città fa pagare per poter camminarci dentro. Per Brugnaro, chiaramente, è un titolo di vanto (“apripista a livello mondiale”). L’ex sindaco Massimo Cacciari, con il suo stile alieno da perifrasi, ha lanciato un appello alla disobbedienza: “Invito tutti a non pagare un bel niente, perché voglio vedere di fronte a qualsiasi giudice come fanno a sostenere la legittimità di una tassa di ingresso nella città”. Ovvio, no? Non per la massa, che comprensibilmente, onde evitare rogne, perdite di tempo e l’incubo di infilarsi in iter giudiziari, preferirà sganciare il balzello e morta lì. Che sia incostituzionale, è discutibile. Ci sono associazioni, come Ambiente Venezia, già sul piede di guerra: si annunciano ricorsi per violazione dell’articolo 16 della Costituzione (e 45 della Carta europea dei diritti) sulla libera circolazione. Altri citano il diritto alla privacy, anch’esso violato per l’obbligo di iscriversi al portale. Come ha avuto modo di illustrare Gian Paolo Dolso, professore di diritto costituzionale a Firenze, la ragione di pubblico interesse nel tutelare patrimoni culturali di particolare valore può giustificare pedaggi o tariffe che limitino la libertà di circolazione, purché non siano sproporzionate.
L’elefante nella stanza. Il problema resta uno, amministrativo e politico: per cosa sarà utilizzato, di preciso, il ricavato dell’imposta? Se non c’è chiarezza su questo, allora alleggerire le tasche dei turisti anche “solo” di 5 euro è un’ingiustizia bella e buona. Anche sociale: anziché introdurre una nuova tassazione piatta, uguale per tutti, perché non aumentare i 5 euro della tassa di soggiorno rendendola progressiva, ovvero facendo pagare di più chi ha le disponibilità per usufruire di hotel a 4 o 5 stelle o appartamenti con affitti più alti? La normativa nazionale attualmente consente un massimo di 5 euro, ma non si capisce perché non si possa derogare, se Venezia è, come è, condannata al deterioramento. Ma soprattutto, cadrebbe l’effetto comunicativo con cui Brugnaro & C pensano, o si illudono, di calmierare i picchi. Che come abbiamo visto, sono un falso problema. O meglio, non sono “il” problema. Il vero problema, invece, l’elefante nella stanza, è che per non infastidire la famelicità di affittacamere, albergatori e commercianti, il Comune non intende metter mano allo squilibrio fra abitanti reali e posti letto per turisti. E alla faccia dei roboanti impegni, non vuole affrontare davvero le conseguenze della calca continua con l’unica misura che taglierebbe la testa al toro: un ragionevole, ben studiato, fattibile numero chiuso.