La quasi totalità dei quotidiani ha ripreso, dedicando anche intere pagine (La Repubblica, La Stampa), le storie su Instagram di Elena Cecchettin, la sorella di Giulia Cecchettin, la ragazza uccisa un anno fa da Filippo Turetta. È l’opinione di una ragazza sulla sentenza – ergastolo – contro l’assassino di sua sorella. Eccola:
“Una sentenza giudiziaria non corrisponde sempre alla realtà dei fatti. Si chiama verità giudiziaria, ed è quello che viene riportato dal verdetto. E basta. Non toglie il dolore, la violenza fisica e psicologica che la vittima ha subito. Ciò che è successo non sparisce solo perché un’aggravante non viene contestata, o più di una. E non toglie nemmeno il dolore e l’ansia che ho dovuto subire io personalmente in quanto persona vicina a Giulia. Inevitabilmente le persone intime alla vittima vengono trascinate negli stati di ansia e turbamento. Chiaramente non sto insinuando che il dolore che abbia provato Giulia sia paragonabile, tuttavia è giusto ricordare che il non riconoscimento dello stalking è una mancanza di rispetto anche alla famiglia della vittima. Detto questo, il non riconoscimento dello stalking (non parlo nemmeno dell’altra aggravante perché si commenta da sola la situazione) è un'ennesima conferma che alle istituzioni non importa nulla delle donne. Sei vittima solo se sei morta. Quello che subisci in vita te lo gestisci da sola. Quante donne non potranno mettersi in salvo dal loro aguzzino se nemmeno nei casi più palesi non viene riconosciuta una colpa. Però va bene con le frasi melense il 25 novembre e i depliant di spiegazione. Inoltre, fare l’avvocato è una professione e tutti hanno diritto a una difesa e su questo non ci piove. Tuttavia questo significa non avere responsabilità. Sostenere che i comportamenti dell’imputato siano ‘ossessivi, quasi da spettro autistico’ e giustificare con questa affermazione tutto quello che è successo è vergognoso. Stiamo parlando di comportamenti che ledono alla libertà e alla vita di una persona, e associarle con così tanta leggerezza ad una neurodivergenza oltre che a banalizzare e sminuire queste azioni va anche a peggiorare i pregiudizi che nella nostra società già ci sono per le persone neurodivergenti e sullo spettro dell’autismo. Concludo dicendo che il fatto che chi sostiene che tanto la condanna sarebbe stata la stessa anche con le altre due aggravanti non ha capito nulla. Se nulla può portarci indietro Giulia quantomeno può fare la differenza per altre donne nel futuro. È facile richiudere in cella per sempre una persona lavandosene le mani poi e dicendo di aver fatto giustizia. Ma è questa la vera giustizia? Se non iniziamo a prendere sul serio la questione tutto ciò che è stato detto su Giulia che doveva essere l'ultima sono solo parole al vento. Sì, fa la differenza riconoscere le aggravanti, perché vuol dire che la violenza di genere non è presente solo dove è presente il coltello o il pugno. Ma molto prima. E significa che abbiamo tempo per prevenire gli esiti peggiori. Sapete cosa ha ucciso mia sorella? Non solo una mano violenta, ma la giustificazione e menefreghismo per gli stadi di violenza che anticipano il femminicidio”.
Questa mostruosità filosofica, linguistica e morale è diventata in poche ore una notizia. Anche Elena è una vittima, come il padre, Gino Cecchettin. E ha tutto il diritto di dire ciò che vuole, di avere ragione (qualche volta) e torto (spesso). Ascoltiamo Elena Cecchettin da un anno e l’informazione non è ancora riuscita a definire quale spazio spetti a Elena o a Gino quando si parla di violenza di genere: lo spazio dei testimoni. Non metti Elena o Gino al posto degli avvocati, degli analisti, degli storici, dei sociologi. E neanche dei giornalisti di opinione. Se vi suona strano o, addirittura, offensivo è perché, alla fine, di queste vicende vi frega davvero poco: vi interessa il clamore, la faida, la dinamica familiare, il gossip dietro alla cronaca nera. Se vi interessasse davvero il tema leggereste gli esperti: avvocati, sociologi, filosofi morali, giuristi, linguisti ed esperti di comunicazione. Tutte le persone in qualche modo oscurate da Elena Cecchettin e suo padre.
Ancora una volta dimostriamo di avere bisogno di influencer, non di contenuti. Non abbiamo bisogno delle parole di Elena Cecchettin, abbiamo bisogno che a dirle sia lei, la sorella della vittima, la ragazza senza competenze che fa le pagelle del processo contro un ragazzo che ha distrutto la sua vita, la vita di suo padre e, cosa mai particolarmente presa in considerazione, la vita della famiglia Turetta. Andiamo con ordine.
Elena Cecchettin è una populista e, come tale, ripropone un’idea di giustizia sostanzialmente vendicativa e binaria: buoni e cattivi, vittima (la sua famiglia) e colpevole (Turetta). In questo modo evita completamente di confrontarsi con il dolore altrui, polarizzando l’attenzione sul suo trauma e quello del padre. Lo fa generalizzando, attraverso slogan, ma in realtà parla di sé. Scrive “le altre donne”, per poi sentirsi legittimata a dire che la sentenza manca di rispetto alla sua famiglia, cioè a lei. Nega che la verità giudiziaria sia la realtà dei fatti, nonostante i fatti di cui parla – stalking, aggravante della crudeltà e così via – siano di per sé fatti giudiziari e dunque determinati in modo specifico dalla giurisprudenza (sono, in altre parole, oggetti sociali). Sarebbe come criticare una diagnosi medica dicendo che non corrisponde alla realtà dei fatti, solo perché il medico non ha preso in considerazione la tua percezione di un sintomo o un acciacco (è interessante notare che sempre più femministe, in effetti, iniziano a prendersela con i medici che non sarebbero in grado di gestire la loro patologia autodiagnosticata e, qualche volta, inventata). Queste cose vanno dette perché dopo un anno si può anche affermare che due persone qualsiasi non diventano esperte di nulla in un anno.
Non c’è da stupirsi, chiaramente, che i giornalisti sbavino dietro dichiarazioni del genere. Negli Stati Uniti esiste un Pulitzer per il giornalismo di opinione: il giornalismo di opinione non ti dà una notizia, ti dà un quadro. In Italia nella maggior parte dei casi si dovrebbe parlare di giornalismo culturale. È quello di Pasolini, Eco, Sartori, Fallaci, Moravia, Montanelli, Bocca, Buscaroli, Raboni, Veneziani, Langone, Macioce, Mascheroni. O meglio, era. Quel giornalismo lì sta morendo: perché è artigianato, è difficile, è contraddittorio, è estremo. Nessuno di loro aveva o ha i guanti. Ora, invece, sfruttiamo le opinioni di Elena, Gino, Paolo, Alberto, Rosa, Sara, Federico, Silvia (gli ultimi cinque nomi sono di pura fantasia), delocalizzando sui social l’autorevolezza critica per aumentare la produttività e il margine dei profitti. Opinioni innocue, perché a dirle sono persone che vengono riprese specificatamente in virtù del loro successo virtuale. Sono opinioni che non scompongono, che non fanno la differenza, che aiutano, coadiuvano, che fanno da stampella temporanea per il giornale, che almeno verrà letto un po’ di più. La morte del giornalismo culturale è grave e il motivo è attualissimo: riprendere l’opinione di Elena Cecchettin non è come fare un’intervista (e anche su questo, in realtà, si potrebbe discutere). La ripresa dell’opinione di Cecchettin fa sì che le sue parole diventino una notizia, cioè, almeno per i più, un fatto. Sparisce la distinzione tra cronaca e opinione: facciamo la cronaca dell’opinione ora. Così le parole di Elena Cecchettin diventano tanto concrete quanto la morte di sua sorella e ci abituiamo a credere che essere dalla parte di Giulia Cecchettin (siamo sinceri: chi vorrebbe stare dalla parte di Turetta?) voglia dire aderire all’opinione della sorella o del padre, pena negare l’esigenza di giustizia per una povera ragazza uccisa. Così il dominio del discorso, già appaltato ai familiari trasformati in influencer, diventa dominio sui fatti.