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Esplode il “chippageddon”.
Dall’automotive agli smartphone:
la crisi dei chip è più seria del previsto

  • di Marco Ciotola Marco Ciotola

16 marzo 2022

Esplode il “chippageddon”. Dall’automotive agli smartphone: la crisi dei chip è più seria del previsto
Il cosiddetto “chip shortage” emerso durante il primo periodo Covid si è evoluto la scorsa estate in un più apocalittico “chippageddon”. E ora, sullo sfondo della guerra, minaccia sempre di più l’industria globale. Unione europea e Stati Uniti corrono ai ripari tramite il Chip Act, che prevede maxi-investimenti economici al fine di portare la produzione di semiconduttori sui loro territori. Ma il conflitto Russia-Ucraina complica tutto

di Marco Ciotola Marco Ciotola

Per rendere fin da subito l’argomento crisi dei semiconduttori molto più vicino a noi, basti dire che un suo decorso estremo potrebbe mettere fuori servizio praticamente ogni dispositivo elettronico e tecnologico in uso nella nostra quotidianità: auto, moto, smartphone, caldaie, auto, orologi, videocamere, computer, tablet, server e chi più ne ha più ne metta. Una sorta di atmosfera alla Brivido, film di Stephan King che dipinge un universo distopico in cui le macchine vanno improvvisamente contro l’essere umano, con l’unica differenza che in questo caso incrocerebbero le braccia. Stiamo infatti parlando del cuore funzionale di tutti i più comuni dispositivi elettronici o microelettronici, la cui filiera produttiva è stata affossata della pandemia, che ha portato a chiusure di impianti, rapidissimo esaurimento di scorte e ha soprattutto generato una dicotomia letale: al blocco della produzione si è affiancata la rivoluzione della “vita da remoto”, che ha portato la domanda di processori a schizzare.

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Anche se mediaticamente il tema è stato inquadrato in primis come un problema del settore automobilistico, va detto che quest’ultimo pesa solo per l’8% dell’industria, contro oltre il 30% da ricondurre agli smartphone e la stessa percentuale ai computer. Oltre il 50% del mercato dei semiconduttori è ad oggi in capo a Taiwan, circostanza che ha portato numerose compagnie europee e statunitensi ad affrettarsi in contratti d’esclusiva miliardari con l’Oriente, al fine di garantirsi le necessarie forniture. Il risultato? Un mercato del tutto squilibrato e anticoncorrenziale, una catena di approvvigionamento ingestibile perché su scenari socioeconomici opposti e un’offerta che arranca di fronte alla sempre crescente domanda.

Motivi che hanno portato Unione europea e Stati Uniti (che coprono rispettivamente il 10 e il 12% della produzione globale) a presentare il cosiddetto Chips Act, proposta di legge che prevede maxi-investimenti economici al fine di portare impianti che realizzino chip sui loro territori, per un raddoppio della produzione interna entro il 2030: la Commissione europea ha varato un maxi piano da 50 miliardi di euro; sulla stessa linea Joe Biden, pronto a mettere sul piatto uno sforzo pari a 52 miliardi di dollari.

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Semiconduttori: (la complicata) strada che porta alla produzione europea

Sulla carta sembra quasi tutto ben strutturato e pronto alla riuscita: un notevole sforzo economico per il riequilibrio del mercato e una filiera produttiva finalmente sotto controllo. Ma la sfida più complicata si gioca su tre variabili chiave: le materie prime, il tempo e – ad esasperare le prime due – una subentrata guerra. Occorre infatti dare avvio a complicate procedure di estrazione sui propri territori e mettere in conto tempistiche che – pur al netto della burocrazia – richiedono anni. Ma è d’obbligo mettere in conto il vero e proprio monopolio delle estrazioni in mano a una Cina che proprio a inizio anno ha visto concretizzarsi la fusione tra diversi colossi di settore, per la nascita di quella che in molti hanno definito “un’azienda trivellatrice di stato”. Va poi tenuto conto di uno scenario bellico che fa subentrare nuovi ostacoli, basti pensare all’impennata dei prezzi delle materie prime. Ma c’è di più. L’Ucraina è tra i massimi esportatori di neon, cruciale per la realizzazione di chip. Una delle compagnie chiave in questo senso, Cryoin, si trova nell’ormai mediaticamente (e tristemente) nota Odessa, oggetto dei primi bombardamenti putiniani di fine febbraio. Alla luce dell’attacco, lo stabilimento – chiave per le produzioni di chip in Europa e Stati Uniti – ha sospeso l’attività.

Il 45% del palladio proviene invece dalla Russia, paese da etichettare come irraggiungibile e soprattutto soggetto a una cornice legale al momento indefinibile. E poi ancora il litio e una lunga sfilza di metalli che si fanno sempre più distanti sulla scia del complicato scenario geo-politico. Come evidenziato da un recente report targato Moody’s Analytics, “le conseguenze economiche globali peggiori rischiano di riguardare la carenza di chip, perché le nazioni in guerra controllano portate significative di materie prime utili alla produzione di semiconduttori”. E se gli sforzi di Ue e Stati Uniti non bastassero di fronte ai vincoli pratici imposti dalla guerra?

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