Partiamo dalla cosa meno importante, ovvero lei, l’Estetista Cinica, che si è sentita offesa dagli attacchi “classisti”: mi attaccano perché’ “puzzo di povertà”, ha detto. Vede, Dottoressa Cinica, ho atteso per due giorni che qualcuno dell’amministrazione di questa città, teoricamente di sinistra, le dicesse di non permettersi di tirare in mezzo i poveri. Siccome non lo hanno fatto, allora lo faccio io: Milano è una città che con la povertà ha un problema gigantesco, e le assicuro che di lei e della sua merce, i poveri se ne fregano, hanno ben altra dignità e ben altro a cui pensare. Quello di cui lei puzza, piuttosto, è il cattivo gusto – basta il termine “fagiane” che le piace tanto usare – e quindi si, se lei entra dentro la Pinacoteca per un evento aziendale, nel cuore di quella che una volta era la città tutta loden e rigore calvinista e oggi è patatine e spritz, il tutto diventa atto simbolico, rappresentazione plastica di un inarrestabile decadimento culturale che a Milano dura da oltre un decennio. Nel 2012, il collettivo Macao prese possesso dell’allora abbandonata Torre Galfa per farne un luogo di cultura. Nel farlo, i ragazzi motivarono il loro gesto per denunciare come in città la cultura fosse ormai diventata “ancella del capitalismo”. Mai definizione fu più appropriata per definire non solo cosa era la cultura allora, ma cosa sarebbe stata nel successivo decennio e oltre. Si, perché a Milano la cultura oggi non esiste a meno che non ci sia dietro un brand a pagare, e se è vero che non si tratta di un fenomeno solo milanese non esiste una città italiana che abbia svenduto la sua anima al marketing come fatto da Milano negli ultimi anni.
Dalle palme in Duomo pagate da Starbucks nel 2017, fino all’orribile albero di Natale sponsorizzato Gucci del dicembre scorso, nel mezzo c’è stata una desertificazione culturale senza fine, che ha visto la sparizione di teatri, di cinema (Corso Vittorio Emanuele un tempo era “la piccola Broadway”, oggi un dormitorio a cielo aperto) di locali storici (l’elenco sarebbe infinito) e luoghi di aggregazione (lo stesso Macao, dopo aver operato per anni senza l’aiuto di nessuno, ha finito per chiudere). E nel frattempo, parallelamente, si è imposta la logica degli “eventi”, ovviamente a pagamento e quasi sempre con selezione all’ingresso. Ma l’evento è pulizia, location laccata e bella gente ben vestita tutta uguale, mentre la cultura è meticcia per natura, per esistere necessità di commistione e caos, a pr e vip da reality show preferisci banditi e alcolizzati. E mentre scivola nelle classifiche sulla qualità della vita, Milano mantiene saldamente il primato di città-fenomeno da baraccone, dove l’humus culturale degli anni ’90 e dei primi 2000 è stato falciato via senza che nessuno dicesse nulla, e in certe zone un tempo vive ora sembra di camminare nella hall di un aeroporto. Di nuovo: la gentrificazione è una delle grandi pieghe di questa epoca, che riguarda e ha riguardato tutte le principali metropoli mondiali ed europee; ma mentre altrove ha portato anche dei benefici – per esempio stipendi più alti - Milano è l’unica che non ha ricevuto nulla in cambio. Sarà anche la città che offre più opportunità in Italia (forse), ma di certo non può reggere la concorrenza con Londra, Berlino, Parigi eccetera. Insomma: ha perso la sua identità di capitale morale per ricevere in cambio una Terrazza Sentimento e una festa di fagiane chiassose: ne valeva davvero la pena?
Altrove le amministrazioni comunali hanno cercato di correre ai ripari, sostenendo in qualche modo la cultura “dal basso”; a Milano, invece, le amministrazioni di centro-sinistra che si sono succedute non solo non sono riuscite ad arrestare il degrado ma lo ha addirittura celebrato. Il giorno in cui inaugurarono un supermercato sulle ceneri dello storico Teatro Smeraldo, tempio della musica dove suonarono David Bowie e Bob Dylan, gli assessori erano presenti ai festeggiamenti; quando chiuse il cinema Apollo in centro e la multinazionale americana requisì un’intera piazza liberty, graziosa e rifatta di recente, per stravolgerla, piazzarci una scalinata in mezzo e farne il suo negozio, l’assessore applaudì dicendo “bello, veramente”; le palme in Duomo vennero contrabbandate come “simbolo di integrazione”. Per cui è inutile sorprendersi se un’influencer qualsiasi sceglie per i bagordi del suo popolo una sala della Pinacoteca di Brera dove normalmente i visitatori non possono nemmeno portare una bottiglietta d’acqua. Non esiste istantanea migliore per rappresentare Milano. E allora forza, giù la maschera. Le parole del direttore Angelo Crespi, secondo cui nella sala usata dalle fagiane “c’erano libri antichi ma non i più importanti” non fanno altro che aggiungere sale alla ferita di chi ama davvero la città. Abbiate, piuttosto, il coraggio di andare fino in fondo nella vostra idea di cultura. Mettete in vendita la Madonnina. Brandizzatela. Forza, datela in pasto al miglior offerente. Adesso che è estate, mettetele addosso un bikini da fagiana doc, firmato dal brand che offre di più e poi gonfiate il petto per quanti soldi vi siete fatti dare. La Madonnina in bikini: l’immagine perfetta per una città in mutande, dove il denaro giustifica ogni cosa.