Caro amico di destra,
non si può non nutrire una certa simpatia per chi, nell’anno di grazia 2024, si stampa ancora in fronte le etichette di “destra” o “sinistra” (di “centro” non si parla più, e il perché lo diremo alla fine). L’anacronismo come bandiera si situa a metà fra il romantico e il patetico. Bene: la Tua buona fede, quando c’è, ti rende orgoglioso di un’appartenenza che ha avuto un passato, più o meno, degno di attenzione. Fin qui il lato romantico. L’evidenza dei fatti, tuttavia, pende inesorabilmente al patetico. In parole povere: ti credi di destra, ma la merce che ti rifila Giorgia Meloni non ha più niente a che spartire con la destra in cui riponi fede. È una destra immaginaria, la Tua. Una destra alimentata a slogan, che fa da paravento a una realtà ben diversa.
È qua che risale a galla il tema dell’identità della destra: per via emotiva. È sufficiente che sulla poltrona di Presidente del Consiglio ci sia per la prima volta una dei “vostri”, una che ha fatto vita di sezione, una che non restaura ma neppure rinnega, perché la magia si compia e l’Italia meloniana faccia scelte realmente di destra? Non solo l’operato di sora Meloni a Palazzo Chigi si è svolto in continuità con il predecessore Mario Draghi, ma quel che è anche peggio, per Te amico destrorso, è che la traduzione pratica di questa sedicente destra “identitaria” tradisce proprio l’identità che sbandiera. Tu pensi di essere una cosa, in realtà ne sei un’altra. Un purissimo caso di cattiva coscienza.
In politica estera, la fedeltà agli Stati Uniti, andando fra l’altro d’amore e d’accordo con un democratico come Joe Biden, cioè idealmente un avversario, ha ecceduto di parecchio l’obbligata adesione al campo atlantista, all’Occidente liberale, acquisita fin dai tempi di Giorgio Almirante e confermata dallo zelante Gianfranco Fini. Della serie: si poteva anche leccare un po’ meno il guinzaglio, sull’Ucraina. Financo l’ultra-filoamericano Berlusconi, sia pur per i suoi rapporti personali con Putin, era meno zerbino. L’allineamento impettito nelle file della Nato fa venire nostalgia per uno storico cavallo di battaglia di destra, oggi oramai dimenticato, o annacquato in una versione talmente da operetta che ne parla perfino il Pd: l’esercito europeo. Ma anche i sassi sanno che non potrà mai sorgere una vera forza armata d’Europa finché esisterà la Nato. Semplicemente perché un esercito non può obbedire contemporaneamente a due alti comandi diversi. E sappiamo chi comanda, nel nostro continente. Basta rammentare quante basi americane fungono ancora da guarnigione permanente, da noi come in Germania.
Quanto alla politica sociale ed economica, ogni traccia della vecchia “destra sociale” è stata spazzata via. Non diciamo Pino Rauti, ma anche Teodoro Buontempo (il mitico “Er pecora”) chissà quante volte si saranno rigirati come una dinamo nella tomba. Anche in questo caso nulla di nuovo, sotto il sole libero e giocondo: già nelle schiere missine, la corrente legata alle origini socialiste del fascismo era di regola minoritaria. Ma pur senza sposare le tesi più arditamente anti-capitaliste, l’anima sociale, dell’originario Movimento che si chiamava appunto “Sociale”, era comunque estesa, generale. Caratterizzava bene o male un po’ tutti. Adesso, basta.
L’abolizione del reddito di cittadinanza, obiettivamente la misura più sociale degli ultimi quarant’anni, è stata eseguita senza batter ciglio. L’orrore per la spesa pubblica, per quanto discutibile possa esserne stato l’uso o l’abuso (vedi gli insulti al bonus edilizio), iscrive d’imperio i Brothers of Italy al partito unico liberista, la cui ideologia privatizzatrice varia nelle forme e nella sfumature, ma è incontestabilmente l’unico e autentico “pensiero unico” che resta sempre e comunque al potere. Sotto qualunque governo, o quasi.
Se infine volgiamo lo sguardo al reparto cultura, valga un esempio per tutti. Alessandro Giuli, giornalista melonianissimo e infatti premiato con la presidenza del Maxxi di Roma, nel suo ultimo libro rispolvera un mostro sacro della sinistra, per la verità “recuperato” dalla Nuova Destra italo-francese (Alain De Benoist e Marco Tarchi) già negli anni ’70 e ’80: Antonio Gramsci. L’intento è contribuire, gramscianamente, a elaborare un po’ di teoria per migliorare la prassi dell’“egemonia” finora attuata dalla destra governativa: la nuda occupazione di posti. Con i risultati deprimenti a tutti noti. E non stiamo parlando del flop di Pino Insegno in prima serata su Rai 1, ma dell’inconsistenza della proposta culturale complessiva, incarnata alla perfezione dall’insignificanza (e dalla gaffes sesquipedali) del ministro Gennaro Sangiuliano. I veri egemonici sono Vannacci e Feltri con i loro luogocomunismi da terza media. Roba che a confronto la Fallaci era Simone Weil.
Cosa propone Giuli? Di cooptare le menti più prolifiche e creative che non siano organiche. Il che dimostra quante poche ve ne siano disponibili in organico. Per forza, dal momento che dietro le parole d’ordine identitarie, facili perché simboliche, su Dio, Patria e Famiglia, questa destra fa solo del banale, servile, ragionieristico liberalismo. Classista e anti-popolare, per dire le cose come stanno. Nessun giovane intellettuale degno della qualifica può farsene ispirare. A meno che, si capisce, non sia vecchio dentro, già bello incravattato e pronto a infeudarsi. O non vada in estasi di fronte alla motosega dell’argentino Milei. Insomma, questa destra non è destra: è centro. E oggigiorno, di centro sono quasi tutti. Ecco perché nessuno lo evoca più, quel centro che come un buco di indistinta melassa risucchia ogni forza che intenda la politica esclusivamente come conservazione del potere. E in ciò, caro amico meloniano, bisogna dire che, definendosi i Tuoi beniamini di destra dei conservatori, per lo meno sono involontariamente meno disonesti di chi si proclama progressista.