“Agnelli, che pena”: Vittorio Feltri dice la sua sulla storica famiglia Agnelli-Elkann. E la dice pesante. “La caduta degli dèi torinesi, o forse newyorchesi e parigini, non ha nulla di tragico, nessun urlo di Munch, piuttosto - scrive nell'editoriale del 7 aprile su Il Giornale - assistiamo allo scivolamento mediocre nel fruscio di denari occultati”. Il direttorissimo spiega le ragioni della sua invettiva contro una delle famiglie più potenti d’italia, gli Agnelli-Elkann, secondo lu cullata dal mito dell’odio, causa di non pochi dissidi interni ed esterni. Feltri condivide con i lettori l'impressione di una decadenza inarrestabile (e annunciata) degli imprenditori di origini piemontesi in cui tutti quanti, padre, madre e figlio alla fine sono riusciti a denunciarsi a vicenda (secondo il giornalista mancherebbe soltanto lo Spirito Santo a ricevere una querela da loro, salvatosi dalle azioni della famiglia solo “perché impegnato in Vaticano”). Nell'articolo viene descritta l’era finita di una progenie che va in pendant con l'arredamento un po' agée delle dimore Agnelli-Elkann: “La decadenza della famiglia Agnelli è in rima con il famoso stile della casa. Mi mette tristezza comunque”. Solo tristezza?
Feltri continua poi senza sosta: “Per la stupidità con cui gli italiani ne hanno ingrassato il patrimonio e nutrito la regalità sulla base di una rendita chiamata Fiat. I tre fratelli Elkann (John, Lapo e Ginevra) che pare abbiano giocato - hanno scritto i giudici del riesame l'altro ieri a spostare l’amata nonna Marella come spalloni dalla Svizzera all'Italia, per frodare fisco e congiunti, alla fine ci rimetteranno le briciole, ma reggeranno il colpo e così il resto del parentorum dotato della tipica erre: come diceva a proposito del suo regno l'imperatore Carlo V, sul denaro degli Agnelli non tramonta mai il sole. Nessuno oserà mandare a monte il castello finanziario su cui ci sia stata frode o meno - si regge Stellantis, che gli Elkann si spartiscono con i francesi avendo loro venduto la Fiat”. Secondo il fondatore di Libero ciò che fa rabbia è la constatazione che quello che è stato trasferito da un’altra parte e fuori dal Paese sarebbe dovuto rimanere ancorato e aggrappato al suolo italiano. Quindi Feltri parla solo di “tristezza”? No, nel suo cocktail di sentimenti e di emozioni c'entrano anche pena, rabbia e delusione. E si chiede anche come sia stato possibile che un'Italia gravata dai debiti abbia acconsentito al trasferimento di ingenti somme di denaro, prima in lire e poi in euro, verso i conti della Fiat per più di un secolo; fondi che a suo dire avrebbero finanziato l'acquisto di lussuose dimore sulle colline torinesi e, successivamente, sono stati spostati all'estero.
Ma chi sarebbero o sarebbero stati i "complici"? Dei giornalisti, anche. Per Feltri “il consenso generale è certo passato dalla categoria cui appartengo. Il dominio esercitato sui mass media dalla Fiat è stato (quasi) totalitario. Inducendo grandi e piccole firme all'uso della tastiera a mo' di mandolino o di corno inglese quando l'Avvocato era in vita, sostituito dal violino tzigano del rimpianto post mortem”. E prosegue: “Sarebbe il caso ci si ricordasse, e si trovasse il modo di invertire il flusso della trasfusione di sangue a getto continuo, che credo abbia ispirato i progettisti di oleodotti transcontinentali, i cui donatori sono sempre stati gli italiani costantemente chiamati a porgere il braccio per dare più colorito alle guance candide e al pallido vello degli Agnelli, gli unici da noi mai sacrificati per la Pasqua”. Secondo Feltri la Fiat si sarebbe nutrita attraverso i salvadanai dei padri di famiglia e dopo altre considerazioni, l’autore fa riferimento a un popolino e popolone vissuti per quasi cento anni nella convinzione che quello che era il destino dell’Italia potesse combaciare con quello della Fiat. Ma i salvadanai infranti "non bastavano mai a ripianare i passivi. Che chissà come si trasformavano in generose elargizioni alla famigliona ricca di mungitori della vacca italica". Questo secondo il luogo comune sancito dalla formula “ciò che va bene per la Fiat va bene per l’Italia”, di cui, dice Feltri, “l'inventore pro domo sua è stato proprio Gianni Agnelli, che poi in una intervista con Gianni Minoli ha reso più efficace il concetto: ‘Quello che è male per Torino è sempre male per l’Italia’. Povera Italia, altro che poveri Agnelli. Di costoro solo gli antenati sono stati imprenditori (ai tempi della Belle Époque e della Grande Guerra, che per loro è stata la stessa cosa) poi sono venuti i prenditori. Che ora litigano sul malloppo”.