Ci eravamo lasciati, fisicamente e metaforicamente, sette anni fa, sempre qui a San Siro, in un lungo addio che poi si era protratto per altre date, indoor, chiudendo con l’ultimo dell’anno del 2016, una storia che era durata cinquant’anni. Parlo della storia dei Pooh, una delle eccellenze del pop italiano. Dopo quell’addio una separazione non sempre raccontata bene, i lutti per la morte di Stefano D’Orazio e Valerio Negrini, il primo batterista storico della band, portato via dal COVID nel 2020, l’altro storico paroliere di buona parte delle canzoni della band, carriere soliste che ci hanno raccontato sfumature che non avremmo magari immaginato, penso a Casanova OperaPop di Red Canzian, una delle più belle opere musicali composte in Italia negli ultimi anni. Poi, proprio per ricordare Stefano, l’invito da parte di Amadeus a Sanremo, un ritorno momentaneo quasi insperato, e da lì l’idea di tornare di nuovo a calcare altri palchi.
Così ecco San Siro. E dopo San Siro, 30mila biglietti bruciati in un giorno, ecco l’Olimpico. E poi il sud Italia, e poi l’Arena di Verona, e altre date indoor. Venti in tutto, in un ritorno che poi tanto momentaneo sembra non voler e non poter essere. Fin qui la storia. La cronaca. Ma nei fatti i Pooh sono tornati, a San Siro e nelle nostre vite, dimostrando di essere ben più che un ricordo. Cinquantasei canzoni in scaletta, alcune delle quali, penso al secondo e al quarto blocco, rivolto al periodo più prog, lunghe e elaborate, neanche troppo famoso per un pubblico non di fan, una grinta, Red il più giovane ha già festeggiato i settant’anni, gli altri tutti più grandi di lui, una energia e capacità di tenere il pubblico in pugno, pubblico più che felice di farsi tenere in pugno, lì a rendere indietro tutta quella potenza e quella forza, qualcosa che lascia a bocca aperta. O meglio, che spinge verso una riflessione. Perché leggiamo da tempo di concerti che si dimostrano poco più di una ospitata da parte di artisti trap o urban, a fare poche canzoni, quelle hanno in repertorio, spesso biascicando parole sulle basi con anche la voce incisa, come a cantare sopra la radio, mentre si è in auto, ma vedere questi arzilli vecchietti darci dentro come ossessi, beh, ci lascia quantomeno rivedere tanti discorsi fatti sulle differenze tra chi fa musica e chi no.
Intendiamoci, so bene che è un discorso a forte rischio boomerismo, e, contravvenendo all’anagrafe, ben venga il mio essere additato come boomer, perché tremila e passa concerti fatti, la famosa gavetta praticata prima di arrivare al successo, la dedizione verso la forma canzone e ancor di più verso il pubblico, sempre ripagato con generosità è tutto un patrimonio che anche a distanza di anni dall’addio ripaga, come se questi sette anni non ci fossero mai stati, e fossimo a inizio 2017, prima dell’esplosione della medesima trap e prima ancora, forse, che l’indie ci illudesse, o illudesse semmai qualcuno, discografici in testa, che anche essere sciatti potesse andar bene per costruire una solida carriera.
Cinquantasei canzoni, molte delle quali cantante all’unisono da tutto il pubblico, compreso chi scrive, il boomer che poi sarei io. Melodie strepitose appoggiate su giri armonici degni di questo nome, canzone complesse ma che mai risultano difficili, cambi di ritmi, giochi di voci, armonizzazioni, la dinamica, santo Dio, la dinamica, Roby, Dodi e Red a dominare il palco, accompagnati da Phil Mer alla batteria, Danilo Ballo alle tastiere, in alcuni passaggi, pochi va detto, anche da Riccardo Fogli alla voce, una sezione archi di otto elementi è un coro di cinquanta voci a sottolineare i passaggi più epici. Che poi in realtà no, i passaggi più epici sono epici per loro tre, le loro canzoni, quelle apparentemente datate come Rotolando respirando, quelle senza tempo come La donna del mio amico, L’altra donna, Stare senza di te, In diretta nel vento, Noi due nel mondo e nell’anima, La mia donna (il terzo blocco è stato magistrale, una infilata di canzoni perfette, anche scomode, con tutte quelle storie di corna, ma davvero perfette), Quando una lei va via, Ci penserò domani, Giorni infiniti, L’ultima notte di caccia, Cercando di te, Notte a sorpresa, quelle da cantare tutti in coro, da Pensiero a Dammi solo un minuto, passando per Tanta voglia di lei, Chi fermerà la musica, ma anche quelle superate dal tempo come Piccola Katy, Nascerò con te, o Pierre, quest’ultima un testo forse oggi impraticabile, ai tempi rivoluzionario, per non dire di Uomini soli, cantata coi ragazzi de Il Volo.
Che poi come si fa a scegliere tra cinquantasei canzoni, mi chiedo? Per non dire delle tante lasciate fuori dalla scaletta, che mica potevano suonare più delle tre ore e un quarto che alla fine hanno suonato. Roby che esagera alle tastiere e a voler cantare più degli altri, Dodi che infarcisce ogni canzone di assoli su assoli, quello de La mia donna, purtroppo eseguita solo in parte, andrebbe dichiarato patrimonio dell’Unesco, Red che delizia coi suoi giri di basso, il caratteristico fretless a impreziosirne alcuni avvolgendoli di magia, Riccardo che colora col suo inconfondibile tono quel che che da colorare c’è, questo è epico di suo, epicissimo. Quando su Viva il pubblico del prato se ne è fottuto dei cordoli di protezione e si è buttato sotto il palco, vedere le facce dei tre Pooh sul palco ci ha detto tutto quel che c’era da sapere su chi fosse vivo oggi in città.
Un concerto, lo dico fatti da poco i cinquantaquattro, che mi fa guardare ai giovani con la faccia di chi ha vissuto e sa che probabilmente è vero, il riscaldamento climatico non ci lascerà molti anni davanti, hai voglia a fare lo spavaldo con la tua gioventù, bimbominkia di merda, impara piuttosto a suonare uno strumento, se ne sei capace, e poi ti potrai permettere anche di strafare con fuochi e fiamme, luci e coriandoli, senza dover però ricorrere a trucchetti come i cambi d’abito, sempre sul palco a pestare sugli strumenti, tanto come in Cocoon, alla fine vinceremo sempre noi. Vinceranno loro.