In Corte d’Assise a Venezia l’atmosfera è carica di tensione mentre Filippo Turetta, accusato dell'omicidio della sua ex fidanzata Giulia Cecchettin, fa il suo ingresso in aula. Vestito in modo semplice, con una felpa grigia e un paio di pantaloni neri, appare dimesso. Si aggira tra i banchi, incespicando nelle risposte e tenendo lo sguardo basso, con un’aria quasi smarrita. Tra le parti civili è presente anche Gino Cecchettin, padre di Giulia, in un momento di silenzio e dolore tangibile. Turetta, dopo un anno di detenzione, torna così a confrontarsi con la realtà e le conseguenze del suo gesto, mostrando un misto di esitazione e apparente volontà di rivelazione.
Nel suo interrogatorio, Turetta ammette i suoi pensieri oscuri che risalgono ai giorni precedenti l’omicidio. «Voglio raccontare tutto quello che è successo», dichiara, cercando di spiegare la lista degli strumenti per il delitto, stilata appena qualche giorno prima dell'11 novembre, giorno in cui Giulia perse la vita. Davanti alle domande del pubblico ministero Andrea Petroni, emerge un quadro agghiacciante: la volontà di far del male a Giulia non sarebbe stata un impulso improvviso, ma il risultato di un crescendo di emozioni e pensieri contorti. «Pensavo di rapirla, e anche di toglierle la vita», confessa Turetta, attribuendo questa decisione a un periodo buio e tormentato in cui il desiderio di ricongiungersi con Giulia si trasformò in rabbia e risentimento. Le sue parole evidenziano un'alternanza di giustificazioni e tentativi di razionalizzazione del delitto, inconciliabili con il dolore inflitto.
Durante l'udienza, Turetta parla delle memorie che ha scritto durante l’anno di detenzione, una lunga confessione redatta a tappe, per «mettere ordine» nei ricordi e nelle motivazioni che lo hanno spinto a un gesto così estremo. «Avevo tanti pensieri sbagliati», ammette, ricostruendo il delitto come una catena di eventi e di pensieri che si è andata consolidando e che oggi, con il senno di poi, sembra voler riesaminare. Ma l’aula sembra fredda alla sua espressione di pentimento o confusione, e ogni parola riecheggia come un grido di disperazione tra i volti degli astanti, increduli davanti alla tragedia che ha segnato le vite di tanti.
L’apparente volontà di spiegazione dell’imputato, tuttavia, non riesce a dissipare l’orrore del crimine. Mentre il processo continua, il dramma di Giulia Cecchettin resta indelebile, e il dolore del padre Gino, costretto a riascoltare i dettagli della morte della figlia, testimonia il peso di una perdita insopportabile e il tentativo di trovare giustizia in un mare di parole sospese tra colpevolezza e pentimento.