Riccardo Faggin si schianta con la propria auto a Padova. Ha 26 anni, sbanda, finisce nella corsia di senso opposto e va addosso a un platano. Succede tra il 28 e il 29 novembre scorsi. Riccardo studia Scienze Infermieristiche e a casa si stanno preparando per festeggiarlo per la laurea imminente. Le indagini sono state affidate alla procura di Padova che dovrà determinare la dinamica dell’incidente di Riccardo, alla guida di una Opel, e chiarire alcuni punti poco chiari. Tra questi anche il fatto che l’ateneo abbia completamente negato vi fosse alcuna seduta di appello prevista. Riccardo non stava per diventare infermiere. Riccardo non aveva detto la verità. Amici e familiari erano pronti a festeggiarlo, di lì a pochi giorni, era tutto pronto. Ma non ci sarebbe stata nessuna laurea per cui gioire. Ora ci si chiede se la morte sia stata accidentale o una scelta del ragazzo. Andiamo a Bologna. Ha 23 anni il ragazzo originario di Pescara iscritto a Giurisprudenza. Annuncia la laurea imminente e organizza una festa, ma in realtà era indietro con gli esami e sceglie di buttarsi da un ponte. Siamo a ottobre scorso. Un caso simile esattamente un anno prima, sempre a Bologna, quando un 29enne si butta da ponte Stalingrado dopo aver mentito sugli esami dati del corso di Economia. Nel 2018 un 23enne di Urbino si butta dalla finestra per gli stessi motivi. Nel 2010 a Genova un altro caso. Nel 2009 un ragazzo si impicca Siena, stesso motivo. Nel 2004 si butta dal balcona a Parma un altro ragazzo. I casi sono moltissimi.
Nel 2021 le richieste di aiuto al Telefono Amico per tentato suicidio sono state circa 6mila. il 55% in più rispetto al 2020. L’incremento post Pandemia è evidente, se si pensa che i dati sono quadruplicati. A rivelarlo è l’Istat. Il 28% delle richieste riguarda under 26. Il suicidio è la seconda causa di morte più diffusa tra i giovani nel mondo. Il fallimento scolastico e l’ansia da prestazione sono tra i motivi principali. Non c’è assoluzione per una società dedita all’omicidio di adolescenti che non reggono i ritmi imposti loro da sistemi organizzati intorno ai concetti di merito, efficienza e produttività. Se la colpa di queste morti è di qualcuno, è del sostrato culturale e dell’atteggiamento politico diffuso in Italia come in altri Paesi e che costringe i ragazzi a dimenticarsi totalmente quale sia l’obiettivo ultimo della cultura. Come ricorda Kurt Flasch nella sua introduzione al pensiero di Niccolò Cusano, sapienza vuol dire “gustare”, «assaporare la verità». Ma la nostra smania di velocità ed efficientismo ci ha fatto dimenticare completamente il sapore (e dunque il piacere) che la conoscenza comporta. Altro che covid. La vera pandemia, che ci toglie gusto e olfatto, è l’ignoranza. Ignoranza vuol dire non sapere e non sapere, abbiamo detto, vuol dire non gustare. Per questo è colpa nostra se Riccardo è morto. Una società che premia i primi, come nel caso di Carlotta Rossignoli, erroneamente considerati i migliori, è una società che porta alla depressione e all’alienazione. Perché chi non si dà per vinto, e sceglie di vivere, abdica alla sua identità in favore di un approccio da macchina allo studio. Un archivio umano di nozioni, niente di più. Qui giova ricordare la frase che viene subito dopo nel testo di Flasch: «E il gustare lo si fa di persona».
La grande bugia che ci beviamo, grazie ad approfonditissime statistiche, è che sempre più persone hanno accesso all’istruzione in Italia. Nulla di più falso. Al contrario, sempre più persone smettono di essere persone, in virtù di un’istruzione che non è più tale. Corriamo sempre, dobbiamo essere “i più”: i più violenti, i più aggressivi, i più veloci, i più bravi, i più discussi. Selvaggia Lucarelli deve essere la più intransigente moralista del politicamente corretto della TV, Saviano il più duro degli oppositori della Meloni, Letta il più atlantista tra gli atlantisti, Burioni il più scientista tra gli scientisti, Salvini il più tradizionalista dei tradizionalisti e così via. Alla fine ci troviamo dei ragazzi che, a forza di dover evitare di essere “i meno” e non potendo essere “i più”, si azzerano, neutralizzandosi. Ma proprio questo porta al crollo. Non essere più ciò che si è e vedersi, comunque, fallire. Non essere più quel ragazzo gioviale e altruista di cui parlano gli amici di Riccardo, ma, almeno nel contesto dello studio, un groviglio di ansie e frustrazioni, in cui è la tristezza a fare da collante. Il problema di chiamare il sistema in cui viviamo “società della performance” sta proprio nel rischio di interpretare questa crisi come una “crisi della stanchezza”. Niente di più sbagliato. Se c’è stanchezza c’è sempre un io che si stanca. Qui è proprio l’io a mancare. La nostra è una società dell’annichilimento, in cui lo studente prende la sua auto e si schianta, o un altro si getta in strada o in un fiume. La parola chiave è nulla. Nulla si è ottenuto, nulla si vale, nullo è il peso di un gesto tanto definitivo quanto il suicidio.