La proprietaria della pizzeria “Le Vignole” Giovanna Pedretti è morta, l’ipotesi è suicidio. Al centro di un “debunking giornalistico” di Lorenzo Biagiarelli e Selvaggia Lucarelli, la signora sarebbe stata travolta dalle critiche dopo aver falsificato una sua risposta sotto una recensione considerata abilista e omofoba. Ora che la donna sembra essersi tolta la vita, sui social il giornalista del Tg3 Jari Pilati, Selvaggia Lucarelli e il compagno chef sono finiti sotto accusa, tanto da portare Biagiarelli a non presentarsi durante la puntata di lunedì del programma di cucina condotto da Antonella Clerici È sempre mezzogiorno, mentre la compagna lo difende sui suoi canali social, mostrando anche il genere di critiche e offese che sta ricevendo in queste ore. Ma davvero questo modo di fare giornalismo è un problema? Che ruolo hanno avuto i media e i social in questa storia? Dove finisce il giornalismo di inchiesta e inizia la gogna alimentata dagli influencer? Lo abbiamo chiesto alla giornalista, blogger e opinionista Francesca Barra.
Francesca, che ruolo hanno avuto i media, fin dall’inizio, nel non accertare la veridicità o meno della recensione?
C’è una tendenza generale a occuparsi in modo molto frettoloso di una storia acchiappa like. È un rischio. Io di recente mi sono occupata, per mesi, di un caso che ho curato con grandissima partecipazione. È il caso di un figlio orfano di femminicidio, e dopo esattamente pochi giorni dalla pubblicazione della storia su L’Espresso un altro quotidiano ha pubblicato la stessa frase che il ragazzo aveva rivelato a me, sulla quale io avevo indagato. Si tratta di un aspetto della vicenda molto delicata, poiché per lo Stato è ancora il marito assassino a doversi occupare del corpo della moglie, che non può essere spostato senza il suo benestare. Allora mi sono fatta una domanda: il mio intento è quello di restituire dignità e giustizia alle storie che racconto e se l’altro giornalista non vuole citarmi ma approfittare del mio lavoro, io non posso fare la guerra contro di lui, perché ne farebbe le spese la storia stessa che ho raccontato. Questo perché passerebbe in primo piano la guerra fra giornalisti a discapito della storia di questo ragazzo.
Ti sei fermata?
Sì. Stavo per fare delle storie su questo argomento, perché mi sembrava profondamente ingiusto questo modo di fare giornalismo. Poi, però, ho pensato che il giornalista non debba essere un egocentrico narciso che mette in primo piano tanto il proprio lavoro, la propria voce, mentre io l’ho sempre reputato un dovere. Ti racconto questo per farti capire che a volte l’ego e la fretta ci inducono a essere frettolosi, perché dobbiamo essere i primi ad arrivare e soprattutto vogliamo sottolineare continuamente che siamo i primi a essersi occupati di quella notizia. Perché vogliamo mettere il timbro sulla notizia e questa cosa è il male del giornalismo. È il male del giornalismo 2.0 pensare che le storie siano nostre, rivendicarle continuamente, quando, in realtà le storie sono di chi ce le racconta.
A tal proposito Alberto Dandolo, sul suo profilo Instagram, ha scritto: “Vi imploro, prendete fiato riflettete iniziate davvero il vostro, il nostro lavoro, che è il più bello del mondo”.
Il giornalismo non è accanirsi, sputare veleno o fare pettegolezzi sulla vita degli altri. Perché quando tu racconti una storia devi pensare anche che hai una responsabilità. Una cosa che a te può sembrare un gioco o la ricerca di verità, invece, in realtà poi si può anche riversare sulla tua famiglia e sulle persone che sono accanto a te. Quindi, in questo caso, mi verrebbero tanti maestri del giornalismo da citare che corrispondono alla mia visione del meraviglioso mestiere che ho scelto.
Chi ti viene in mente?
I maestri che facevano le vere interviste. Penso a Biagi, alle inchieste di tanti giornalisti cronisti che lavorano per i giornali locali, che si vanno a sporcare le scarpe. Quando mi occupavo di storie di criminalità organizzata per raccontare storie sull’Aspromonte sono andata ad Aspromonte. Invece tanti giornalisti locali hanno rischiato la vita e si sono sporcati veramente, andando a fare inchieste serie con il rischio talvolta di vedere le medesime storie, raccontante da altri. E loro sono rimasti nell’ombra facendo il loro dovere, perché, come diceva Siani, il giornalista è quello che diventa un ponte fra l’interpretazione e i fatti. È quello che fa dieci passi indietro rispetto alle storie.
E allora perché accade che si pubblichino delle storie senza verificarle con calma?
Perché accade che chi le racconta diventa più protagonista del vero protagonista, perché ci si accanisce. Se io faccio un'inchiesta e poi magari risulta vera, dopo metto un punto. Ma se continuo, sto dicendo a tutti gli haters di venirmi accanto e starmi dietro, perché poi loro useranno le parole peggiori contro quella determinata persona.
È una sorta di giornalista-influencer quello che stai descrivendo?
Non mi piace perché è cacofonico. Il giornalista-influencer non deve esistere, perché il giornalista deve fare le sue inchieste. Tutto ciò che viene dopo, ovvero l’esaltazione di sé stesso, l’esultare dopo un gol, chiedere a chi di venirti dietro, sapendo che tra questi ci saranno anche i più beceri commentatori, quello non è giornalismo. Diventa appagamento di una necessità personale che è quella di dire “sono il migliore, io ti affosso”. Quando conducevo La bellezza contro le mafie, su Rai Radio Uno, ho raccontato più di duemila storie di vittime e carnefici delle organizzazioni criminali. Puoi intervistare chiunque, il serial killer, il mafioso, ma non è facendo il giustiziere o il moralizzatore che fai il tuo dovere. Non si fa così giornalismo, noi non siamo giudici. Ormai, c'è sempre accompagnato a una notizia la gogna mediatica, anche quando tu non la chiedi in maniera esplicita, tu la stai inducendo con quel determinato atteggiamento.
La Lucarelli nelle sue storie ha detto che si sta parlando di gogna mediatica, nel caso della ristoratrice, ma che secondo lei non c’è. Concordi?
Io non la seguo, siamo bloccate da anni, ho letto solo quello che riportano i giornali. Non mi interessa neanche entrare nello specifico di un metodo che è una scelta personale, ma a ogni azione corrisponde una reazione. Cioè se tu adotti un metodo poi vai incontro a dei rischi. Per esempio, mi ricordo di quando attaccarono Le Iene perché ci fu un caso di suicidio. All’epoca si gridò allo scandalo per questo tipo di metodo. Poi però si adotta un metodo simile. E qui penso ad esempio al giornalista del tg3 che quasi mette al muro la signora Giovanna.
Mi stai parlando di codice deontologico?
Noi abbiamo un dovere giornalistico deontologico, che è quello di raccontare la verità. Ma c'è modo e modo di raccontare e ricercare la verità. Non si può prendere una storia e buttarla in pasto al pubblico.
Quindi come dovrebbe procedere un giornalista?
Bisogna fare la propria inchiesta, raccontarla quando è finita e soprattutto in un certo modo e negli ambiti anche corretti. Poi, però, finisce lì.
È normale che Lorenzo Biagiarelli abbia chiamato la ristoratrice?
È un metodo e il metodo ha delle conseguenze che avranno valutato. Noi tutti ogni mattina ci svegliamo e scegliamo come, dove e chi voler essere. Nel momento in cui lo mettiamo in pratica poi ci assumiamo il rischio di ciò che facciamo.
Sì, ma Biagiarelli fa lo chef e non il giornalista.
Io loro due non li seguo e sono anni che mi fanno questa domanda, ma ho preso le distanze da anni da questa persona. Quando ho letto la notizia sui giornali ieri sera mi ha colpito tremendamente, soprattutto se una donna ha dei pregressi. Quando avevo visto l’intervista che le avevano fatto al Tg3, lei era chiaramente a disagio e in stato di ansia. Quell’intervista mi aveva colpita, perché davanti a me c’era una donna in difficoltà. La mia etica, e forse sono politicamente corretta come qualcuno dice, mi invita sempre a pensare che dietro un'azione c’è sempre una spiegazione. Una volta, parlando con un criminologo per motivi di lavoro, mi disse che per fare un’intervista a un criminale bisogna conoscere la loro storia, non per giustificarlo, ma per comprendere. Se pensi che una donna abbia mentito su una recensione, invece di andare solo a monte, devi interrogarti sempre su che cosa l'abbia spinta a fare questo gesto. La persona poteva stare male psicologicamente, poteva essere stata costretta, ci potevano essere mille ragioni dietro. Bisogna avere rispetto della vita degli altri.
Se la metti così il quadro è ancora peggiore, perché la Lucarelli, nelle sue storie Instagram, ha parlato proprio di storia e pregressi della persona in questione.
E allora, se conoscevano i pregressi drammatici non potevano aspettare di avere una storia un po’ più accurata prima di armare il popolo che li segue e che non vede l’ora di avere il sangue delle persone? Non puoi aspettare di fornire una storia nella sua completezza? È un metodo che hanno scelto. Per esempio, nel caso di Chiara Ferragni, c’era una corrispondenza al vero, lei aveva sollevato dei dubbi, che sono stati talmente ignorati che dopo un anno si è dimostrato fossero fondati. Immagino un Formigli, o un qualsiasi altro giornalista che fa un’inchiesta: l’inchiesta la fa e poi la chiude, perché il suo obiettivo è stato raggiunto. E l’obiettivo non è quello di distruggere un essere umano, ma quello di ricercare verità e giustizia attraverso un’inchiesta. Tutto ciò che segue non serve né alla storia né a te. Alberto Matano ha deciso di non occuparsi più del caso di Chiara Ferragni finché non ci saranno delle novità. Un contenitore così seguito, come quello della Vita in Diretta, si è privato di un’appetibile storia in modo deontologicamente molto corretto. È così che si fa il giornalista.
Matano ha capito il confine tra informazioni e accanimento?
Sì. Quel confine molto sottile che c’è, oggi, tra l’informazione e il fatto di fornire un servizio che non serve alla verità. Io ho ancora il tesserino, sono giornalista professionista, ho fatto l’esame di Stato e due anni di praticantato, non ho sempre fatto bene il mio lavoro, ma c’è una cosa che mi ha sempre animata, ovvero il profondo rispetto per le storie degli altri. L’assenza del giudizio morale è alla base del nostro lavoro, perché si può raccontare la verità senza passare da moralizzatori e giustizieri. Altrimenti io, come tanti altri giornalisti, non avrei mai potuto intervistare un assassino o un serial killer. Puoi decidere di non farlo, ma, nel momento in cui lo fai, non puoi applicare un tuo giudizio morale. Per cui, quando noi conosciamo una storia, la dobbiamo presentare quando è completa di tutte le informazioni che necessitiamo.
C’è l’ipotesi di suicidio che, da un punto di vista di responsabilità giornalistica, sarebbe molto grave.
C’è una donna che è morta. Quando c’è un suicidio c’è sempre una problematica più ampia dietro, per cui non posso dire che una donna che si è tolta la vita lo ha fatto perché è stata schiacciata in pochi giorni dalla gogna mediatica. Sicuramente dietro c’era una fragilità e una problematica che ignoriamo. Non voglio essere io quella che vuole banchettare sul metodo della Lucarelli, io sono diversa. Per questo non ti dirò che la morte della donna è da imputare alla gogna sollevata da questo dubbio social. Sicuramente c’era stato qualcosa a monte. Tuttavia, penso che, anche in questo caso, “prendete fiato, un attimo” sarebbe servito, e qui ha ragione Dandolo. Davanti a una donna morta e a fatti ancora non chiariti, aspettiamo a commentare cosa può averlo scatenato. Ci sono ancora troppi pochi elementi per capire la natura del decesso o che cosa potrebbe averla portata a compiere un gesto del genere. Non voglio fare l’errore di tutti, che è quello di gioire dell'eventuale coinvolgimento di certe persone nella vicenda.
Ti sei mai ritrovata in una gogna mediatica?
Sì, tantissimi anni fa, per via di pettegolezzi. Ti parlo di più di dieci anni fa e ogni due giorni se ne uscivano con notizie inverosimili o comunque che avevano a che fare con la sfera privata. Io sono una donna risolta, una professionista, avevo già dei figli (ora ne ho quattro), ma, all’epoca, in cui non c’erano i social come ci sono oggi, le bugie mi avevano tolto l’energia. Ci sono persone che non hanno retto alla gogna, che mortifica la tua reputazione, a quei chiacchiericci che si trasformano in voce del popolo che ti accompagneranno sempre. Le parole sono uno strumento che vanno usate con molta cura, perché ti possono fare tanto tanto male. Io a questo mi opporrò sempre. Immagino che anche alla ristoratrice la situazione abbia potuto provocare dolore. Anche se fosse stata lei ad aver inventato quel post, io, da giornalista, avrei voluto capire il perché. Che cosa si nasconde dietro il bisogno di fare una cosa del genere? Soltanto la voglia di apparire buoni e puri? E perché? Cosa ti manca nella vita? Di cosa sei stata accusata? Questa si chiama empatia, si chiama ricerca totale e lavoro accurato di un giornalista. Se ti manca questa parte, non puoi prendere la vita di una persona, che conosci soltanto da un post, e buttarla impasto a chi vuole il sangue di quella persona.
Hai letto le parole della figlia di Giovanna? Recitano: “Grazie per aver massacrato mia mamma. Cerchi pure la sua prossima vittima”. C’è chi ha anche avuto il coraggio di criticarla.
È molto difficile mettersi nei panni di questa famiglia che sta gestendo un doppio trauma: il primo è quello della morte di una persona che amavano. Il secondo è sapere che la persona che amavano ha provato un dolore profondo negli ultimi giorni, nelle ultime ore. L’incredulità di fronte ad una modalità con cui la vita di una donna è stata gestita. Non voglio entrare nel merito dell'errore, se c'è stato un errore o se c'è stata una gestione falsata di quel post, anche se comunque resta il concetto che la donna difendeva e che ha sempre fatto suo a livello civile e sociale. Non voglio entrare in questo merito perché per me non cambia nulla, nel senso che, anche nella risposta a una eventuale scorrettezza o ambiguità, bisognava trattare questa storia in maniera differente. Si rispetta sempre l'interlocutore che hai davanti per capirlo, e io immagino che adesso la famiglia sia devastata da tanti interrogativi, da un da una situazione assurda e terribile. Le parole della figlia non so se siano state dettate più dal coraggio o dalla delusione e questo lo posso comprendere perché anche lei adesso ha bisogno di risposte e di capire il perché questa situazione sia stata gestita in questo modo. Perché sua madre arriva a morire o soffrirne nei giorni precedenti, perché ancora non sappiamo come sia successo. Perché sua madre è dovuta arrivare a soffrire così tanto.
Cosa si preoccupa di questo modo di fare giornalismo?
Ne Le città invisibili Italo Calvino scriveva: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”. Questo mi fa paura: l’inferno che creiamo invece di rendere questo mondo migliore.