Alla Milano Design Week non poteva mancare uno spazio per quel mestiere che interseca arte e mercato che è l’illustrazione. Tanto più se si parla, in questo caso, della prima mostra personale di un artista milanese doc come Francesco Poroli, direttore artistico di Illustri Festival. Grazie all’ospitalità del collettivo di agenzie guidato da Jungle e Cookies, ecco la FUORISOL Week, che raccoglie trenta fra le più importanti opere firmate da Poroli, mettendo insieme lavori personali, incentrati soprattutto sulla figura femminile, e altri di matrice più commerciale, con un filo rosso: la connessione di comunicazione, advertising e, appunto, illustrazione. Un modo per entrare nella galassia della Design Week meneghina da un lato diverso, di cui discutiamo con lui (che, scherzando, ci ‘intima’ il tu “altrimenti riattacco”).
Francesco, uscendo dalla tua mostra cosa vorresti che rimanesse, al visitatore?
Questa è una bella domanda. Del mio lavoro amo particolarmente il fatto che le mie immagini, dopo averle fatte, non sono più mie, nel senso che uno, guardandole, ci mette la sua storia, un suo titolo, le sue esperienze e diventano qualcos’altro. Direi quindi che vorrei che chi guarda poi si porti a casa le sue storie accompagnate dalle mie immagini. È il bello delle illustrazioni, il cui linguaggio è totalmente democratico, non avendo bisogno di mille spiegazioni come altre forme d’arte. Tutti ci possono proiettare qualcosa di proprio.
Guardandola solo dal tuo lato, come descriveresti la tua arte?
La definirei semplice (spero), e colorata, perché il colore per me è molto importante, è una mia fissa non usare due volte lo stesso colore.
E il rapporto con il design, come si traduce?
Ci sono alcuni punti in comune. Per esempio nel mio modo di disegnare, che è molto geometrico e molto preciso, c’è appunto la stessa precisione di certi oggetti di design. È capitato più volte che alcune cose mie finissero su oggetti di design, o che io abbia lavorato con aziende del ramo. È sempre uno scambio interessante, perché quando le immagini escono dalla pagina e diventano qualcosa di fisico e di tridimensionale, è sempre una scoperta interessante.
L’illustrazione può avere destinazioni varie. Qual è il ventaglio delle possibili?
A me è capitato che andassero su giornali, campagne digitali o animate, o anche oggetti fisici, come mobili, scarpe, t-shirt. Forse la più incredibile di tutte è stata disegnare una vela, per una barca a vela. Quando l’ho vista salpare ed è andato tutto bene, con quella vela disegnata da me, è stata una bella soddisfazione (ride, ndr).
Quanto, nella tua attività creativa, viene dettato dalla committenza?
La maggior parte del mio lavoro è commerciale, su committenza, che siano giornali, riviste o brand. C’è sempre, ed è obbligatorio per chi voglia fare questo mestiere, uno spazio per la tua ricerca personale, per disegnare quello che hai voglia di disegnare, dove provare soluzioni tecniche magari diverse dalle richieste dei clienti. È metà e metà, non per niente la mostra è pensata così: da una parte opere frutto di committenze e dall’altra lavori frutto della mia voglia di disegnare per il piacere di farlo.
Fra le tue influenze c’è anche la Street art?
È un linguaggio che mi interessa e mi piace, anche se non mi influenza direttamente. Se devo pensare a influenze che hanno avuto un ruolo su di me, penso ad altro.
Per esempio?
Una su tutte, volendo fare un nome, direi Fortunato Depero e tutto il futurismo, con quel segno grafico e quel linguaggio, anche qui, per metà commerciale e per metà personale. Lui era bravo a prestare il suo alla Campari di turno, per dire. Non si chiamavano ancora brand, ma il concetto è quello.
Questa natura ibrida c’è sempre stata, o caratterizza di più l’ultimo periodo storico?
Sì, nel nostro Paese sì, c’è sempre stata. Abbiamo una storia gigante di illustrazioni commerciali, basti pensare solo ai poster turistici degli anni ’20 e ’30.
Fra le novità, ma in senso non necessariamente positivo, trovi che l’intelligenza artificiale minacci il tuo lavoro, che ve lo “rubi”, per così dire, almeno in prospettiva?
In prospettiva non lo so, sicuramente è un tema supercaldo per le comunità creative come gli illustratori o i fotografi, o anche per chi scrive. Negli ultimi dodici mesi è avvenuta un’accelerazione talmente folle da rimettere in discussione il nostro futuro. Dico la verità: su questo tema non ho ancora una posizione netta, nel senso che mentalmente sono abituato a pensare che ogni rivoluzione porti con sé qualcosa di potenzialmente utile. C’è, evidentemente, un tema gigantesco di diritto d’autore, perché le intelligenze artificiali vanno a pescare nelle immagini di autori. Però non sono sulle barricate come tanti altri, mi preoccupano di più altri spunti che questa questione pone.
Qualche esempio?
Il fatto di voler rendere tutto sempre più semplice, senza bisogno di fatica per arrivarci. Oppure il fatto che c’è una novità si debba per forza dividersi in bianchi e in neri, pro o contro, senza più la capacità di trovare le sfumature di grigio.
Quali sono le difficoltà iniziali che deve affrontare un illustratore?
Sono le tipiche di chi fa un lavoro creativo e lo fa da freelance, perché se si fa l’illustratore è difficile farlo diversamente. Quindi saper crearsi un giro, saper allargarlo. All’inizio è difficile, anche se quest’ultima generazione, rispetto alla mia, che ho almeno una ventina d’anni più di loro, ha da un lato una grande fortuna che è quella portata dai social network, che consentono di arrivare molto più vicino ai potenziali interessati, e dall’altro lato, però, devono fare i conti con una concorrenza spietata, perché il campo si è allargato, e con il fatto che sono immersi in migliaia di immagini tutti i giorni. Riuscire a farsi una cultura visiva quando si ha così tanta scelta è un po’ più complesso rispetto a una volta. Nell’abbondanza devi saper costruirti strumenti solidi per distinguere il bello dal brutto.
Tu sei di Milano: volendo vedere il bicchiere mezzo vuoto, Milano è la città del caro-casa ds record, nonché del primato nazionale nei furti. Insomma, per viverci bisogna essere benestanti, e stare attenti, diciamo. Nel bicchiere mezzo pieno, invece, cosa ci vedi?
Sono di parte, non solo perché sono di Milano ma perché sono un milanese innamorato della mia città, pur con tutte le sue complessità. Penso che Milano, rispetto all’Italia, abbia una capacità di cambiamento che in tanti altri posti non trovi. Ha una capacità di leggere la contemporaneità e saper adattarsi, anche se non sempre nel modo giusto, perché effettivamente c’è un tema di costo della vita. Faccio per dire: vengo da una settimana a Vicenza dove lo spritz è a 3 euro e 50, e mi sembrava di stare in paradiso (ride, ndr). In generale, comunque, il saper stare un passo in avanti implica delle difficoltà, sicuramente.
Dicevi dei cambiamenti. In cosa, più esattamente?
Banalmente, ad esempio il saper cambiare paesaggio e panorama. Se si pensa a qualunque altro posto in Italia negli ultimi vent’anni, non viene in mente un altro che sia cambiato così anche dal punto di vista estetico. Milano è anche il punto di riferimento di tutta una serie di linguaggi – anche se può sembrare una banalità dirlo durante la Design Week – come l’arte, la moda, il design appunto. Milano resta sulla frontiera.
Mettiamola così: se si sta bene economicamente la frontiera a Milano te la godi, se no, molto meno.
Questo è fuori discussione, ed è parte della sua complessità.