Dai due terribili anni di distanziamento sociale causa Covid 19 non siamo usciti “migliori”. Ma più complessi, senz’altro sì. E i più ambivalenti di tutti sono forse i cosiddetti giovani, categoria che per comodità statistica comprende la fascia 18-30 anni. Esattamente quella indagata in una ricerca, “Stacco tutto: verso una felicità sostenibile”, presentata nella cornice di “Relazionésimo 2030”, kermesse in Fiera a Vicenza dal 15 al 17 luglio a base di workshop, performances, spettacoli musicali e teatrali (Simone Cristicchi, Noemi, Giorgio Panariello) ed oltre 60 convegni sull’onnicomprensivo tema delle relazioni. Attraverso un campione di 450 interviste online e 20 colloqui diretti, lo studio, curato da Sara Sampietro dell’Università Cattolica del Sacro Cuore con l’Ecosistema Generatività.it, dà, come usa dire, uno spaccato della rielaborazione dello stile di vita da parte di una generazione che pare sospesa fra due poli apparentemente opposti: l’aspirazione all’equilibrio e all’indipendenza da un lato, l’indisponibilità al sacrificio duraturo dall’altro.
Il filo rosso dell’indagine, spiega la curatrice Sara Sampietro, “è stato rispondere alla domanda: quali fattori portano benessere?’, per nativi digitali in bilico fra ricerca di lavori gratificanti e fenomeno neet, ovvero coloro che non studiano né lavorano, né cercano più un’attività. In altre parole, cosa li rende felici?”. Stando ai risultati, “la loro visione della felicità è schiacciata su piccoli momenti quotidiani, come una cena in famiglia, la gita con gli amici, la vacanza con la fidanzata o il fidanzato, una camminata”. Tradotto in numeri, il fattore più gettonato è lo “stare bene con se stessi” (23%), seguito dalla salute (17%) e solo ultime le relazioni di coppia o amicali (11%). Un orizzonte, si direbbe, fisso sull’immediatezza ordinaria, sul carpe diem della normalità. “Sì, e si nota anche un eccesso di pragmatismo: aspirano a una gestione del tempo molto razionale. Ad esempio, uno di loro ha spiegato di aver finto di aver bisogno di fare più sport, in realtà doveva trovare il tempo per lo studio”. Circola un’idea del “mantenimento fisico e mentale”, continua la ricercatrice, “inteso come ripudio dello stress, dando un’importanza centrale al tempo libero, allo svago, al riposo, ma anche gli hobby e alle passioni”. Un tempo i latini lo chiamavano ozio, che non è far niente, ma godersi la vita facendo ciò che più piace. “In realtà è più un desiderio che una realtà, visto che il 41% ci prova ma poi desiste, e il 35% anche, ma con scarsi risultati. Quel che è significativo è lo stacco rispetto alle generazioni precedenti, in cui l’orgoglio del proprio lavoro o della propria vocazione non dava spazio a questa questione del tempo”.
Bisogna considerare come presupposto, puntualizza la Sampietro, che “stiamo parlando di giovani per i quali non solo il presente, ma anche il futuro costituisce un’incertezza permanente, avendo alle spalle le esperienze fallimentari di chi li ha preceduti ed essendo vissuti in un clima di crisi perenne”. Giovani per cui il valore primario del lavoro non è più tale: “Non lo è più perché per loro ti definisci anche mediante le passioni. Se poi la passione diventa un lavoro, allora è il massimo. Di qui l’ammirazione per l’influencer, il trainer, lo startupper. In generale non sono disposti a rinunciare alle varie parti in cui organizzano le loro giornate, per esempio, per dire, a due ore di teatro alla settimana”. Il 56%, infatti, desidera un impiego che permetta di incastrare tutto (il che spiegherebbe, fra parentesi, la morìa di lavoratori nel settore ristorazione). Quanto alla famiglia, l’altro tradizionale asse attorno a cui ruotava e ruota ancora gran parte della quotidianità comune, continua ad avere un peso determinante: “Sia quella d’origine, sia quella che si sogna di creare: il 77% dichiara di volere un figlio nei prossimi dieci anni. Solo che la pulsione genitoriale decresce con il crescere dell’età: mentre i 18enni rispondono subito sì con slancio, poi via via le risposte si fanno più dubbiose o negative, per l’instabilità economica che vanno incontrando, certo, ma anche per l’instabilità emotiva e relazionale”.
Alle somme, lo staccare tutto a cui si riferisce il titolo del dossier rimanda a “voler allontanarsi da quel che può fare male, tentando di ridurre al minimo lo stress rifugiandosi nella comfort zone”. È il risvolto inquietante di una way of life per altro verso positivamente centrata sul bilanciamento dei tempi di vita. “In effetti”, commenta la docente, “purtroppo il rischio di paralisi c’è, in questa fuga da quello che fa paura”. Ossia dalla responsabilità, che a volte comporta sacrifici anche pesanti. “D’altra parte desiderano fortemente un modo di vivere sostenibile, con un uso della tecnologia funzionale, senza la fascinazione che subiscono gli adulti. È un quadro a due facce che abbiamo visto, per stare al periodo pandemico, con la didattica a distanza: ha aperto sì nuove frontiere dando maggiori possibilità di espressione, ad esempio, ai ragazzi con problemi emotivi, però ha fatto venir meno l’incontro fisico e la conseguente capacità di esporsi davanti agli altri”.