La scomparsa di Giovanni Paoli ha lasciato dietro di sé non solo dolore, ma anche polemiche che probabilmente lui stesso avrebbe voluto evitare. A riaccendere il dibattito è stato Fabrizio Corona, che ha mosso accuse pesanti nei confronti del padre, Gino Paoli. Non entro nel merito di queste dichiarazioni, ma dopo due anni di rapporto intenso con Giovanni, posso raccontare ciò che ho conosciuto di lui.
Giovanni era uno spirito solitario, sempre in cerca di conferme altrui. La vita gli aveva tolto molto, ma nonostante tutto non aveva mai smesso di sperare in una sorta di riscatto. Uso questa parola non a caso: il peso di essere “figlio di” lo aveva segnato profondamente, anche se non manifestava rancore nei confronti del padre. Una volta gli chiesi perché Gino non lo aiutasse economicamente, considerando che non navigava certo nell’oro. Mi rispose con naturalezza che non gli aveva mai chiesto nulla. Anzi, con un sorriso tra il sarcastico e il realista, mi raccontò di quando, anni prima, il padre gli aveva fatto un bonifico in pieno agosto per permettergli di acquistare un computer, indispensabile per il suo lavoro.

Mi sono spesso chiesta come fosse possibile che in Italia il figlio di un grande cantautore non scrivesse per un quotidiano di rilievo o per una delle riviste più prestigiose. Lui, però, faceva finta di non porsela, quella domanda. Fingere che tutto andasse bene era un esercizio quotidiano, ma di sera, quando la solitudine si faceva sentire, mi chiamava per sfogarsi. Si sentiva abbandonato, incompreso. Era un padre preoccupato per la figlia Olivia, un ex marito che affrontava con rispetto e maturità le inevitabili discussioni con l’ex moglie, un figlio devoto che assisteva la madre non più autosufficiente senza mai lamentarsi.
Eppure, Giovanni era un uomo stanco. Sempre con una Marlboro in mano, una tracolla old style sulla spalla, la voce roca per il troppo fumo. E poi c’era il suo gatto, che spesso gli camminava sulla tastiera mentre scriveva. La sua vita scorreva in una routine monotona, scandita dai ricordi felici di un passato ormai lontano.
Due persone tornavano spesso nei suoi racconti: Candida Morvillo, oggi giornalista del Corriere della Sera, che ai tempi di Novella 2000 era stata la sua “direttora” – così la chiamava lui – e sua sorella, Amanda Sandrelli. Di lei parlava con un misto di ammirazione e nostalgia. Amava ricordare i tempi del liceo, gli anni dell’università e le corse a Roma solo per vederla. La rispettava profondamente, soprattutto per essere riuscita in ciò che lui aveva sempre inseguito senza mai raggiungere: la realizzazione personale.

Giovanni cercava continuamente conferme. Mi chiedeva spesso: “Feldmarescialla, hai letto quello che ho scritto? Critiche? Commenti?”. Più che un’opinione, voleva un semplice “bravo”. Un riconoscimento che raramente riceveva, almeno da chi gli importava davvero.
Le responsabilità per la sua solitudine sono tante e distribuite. Forse il suo silenzio, il suo fingere che tutto andasse bene, hanno reso difficile cogliere i segnali nascosti dietro il suo sorriso, un sorriso che spesso era solo una maschera. Amava suo padre, lo stimava, lo ammirava, ma avrebbe voluto viverlo di più, non leggerlo solo sui giornali. In lui convivevano l’orgoglio di essere suo figlio e il dolore di non sentirsi parte della sua quotidianità.
La sua vita si è consumata con la rapidità di una sigaretta, nella stessa solitudine che aveva segnato i suoi ultimi anni. Sono stata una delle ultime persone a parlarci, raccoglievo ogni giorno i suoi stati d’animo. E oggi, con il groppo in gola, posso dire che Giovanni non era un uomo felice. Di chi sia la colpa? Non sta a me dirlo, e forse lui stesso non avrebbe voluto questa discussione. Ma una cosa è certa: Giovanni aveva sempre una parola buona per tutti. Era il conforto dei delusi. Solo che, alla fine, a lui sono mancate le carezze che non ha mai smesso di donare agli altri.