Una fastidiosa democratica influenza ha appena impedito a Giorgia Meloni d’essere presente all’appuntamento con i sindacati. Occorrerà forse immaginarla, se non allettata, comunque avvolta dal conforto del pigiama. Morbido pile: supponiamo ancora. La sala delle riunioni di Palazzo Chigi in questo caso va intuita vuota, solcata unicamente dai commessi, dal personale di servizio. Pensieri ulteriori: chissà se avrà fatto il vaccino. Quest’anno il virus sembra presentarsi particolarmente virulento. La discussione, il “tavolo” sulla manovra può attendere. Accade però che i conduttori di “Un giorno da pecora”, Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, interessati, cosa risaputa, perfino alle minuzie sovrastrutturali del quotidiano politico e istituzionale, chiedano lumi sullo stato clinico del “presidente” a Marco Osnato, a sua volta presidente, della commissione Finanze della Camera, il deputato di Fratelli d’Italia, presente nello studio di Rai Radio 1 in via Asiago, strada già teatro delle trafficate ultime ore del fascismo in un lontano 25 luglio, come già narrato da Paolo Monelli nel suo “Roma 1943”, non meno citata da “Vincenzino” Talarico leggendario giornalista prestato alla commedia cinematografica, e ancora dove, pochi anni dopo, Alberto Sordi avrebbe messo al mondo il personaggio di Mario Pio con i suoi “compagnucci della parrocchietta”, si perdoni la digressione… Dunque, Osnato, forte della familiarità lavorativa con la premier, butta lì: “Le scriviamo, vediamo se risponde”. L’inferma, solerte, rispose. Così dimostrando d’avere cura del proprio alto ufficio. Osnato, non senza divertito compiacimento, dà conto del messaggino in diretta, in risposta alle seguenti parole che restituiamo nella loro “simpatica” interezza: “Sono stato costretto da quelli di ‘Un giorno da pecora’ a chiederti come stai”.
La risposta della Meloni cancella in pochi istanti l’immagine di lei in pigiama tra le mura domestiche: “Male in verità, ma non avendo particolari diritti sindacali sono a Budapest per il Consiglio europeo a fare il mio lavoro”. Meloni, si sappia, dal mattino presto del 7 novembre, incidentalmente stesso giorno dell’anniversario della rivoluzione russa di Lenin e Trotskij, si trova in Ungheria, nazione governata dall’“amico” Viktor Orbán, per partecipare al vertice della Comunità politica europea, cui farà seguito, impegno gravoso per chiunque accusi uno stato influenzale dovuto alla "australiana”, così battezzato il virus annuale che prevede, parola d’infettivologo, un decorso di 5-7 giorni, l’incontro informale dei capi di stato o di governo del Consiglio europeo. Tra i molti commenti in rete, calcando la questione in senso polemicamente demagogico, sebbene pertinente facendo caso ai “tagli” e alla penuria di personale medico e infermieristico, è forse il caso di riportare il seguente che giunge da un lettore di “Repubblica”: “Tranquilla, Presidente: a causa dello sfascio della sanità non ci curiamo più neppure noi”. Questi è prontamente stigmatizzato, con sarcasmo revanchista dovuto forse alla vittoria di Donald Trump: “Complimenti compagni vedo che la schiuma monta. Chissà quanto se la ride Giorgia leggendovi”. Un altro ancora, avendo contezza, diciamo così, della vivacità della cosiddetta “rivoluzione fascista” sul corpo delle istituzioni ufficiali e non, fa notare: “Visto che sta riscrivendo la storia: ma nel ventennio abolirono i sindacati?” Come si ama dire a destra, citando Tolkien: “Le radici profonde non gelano”. Al massimo, in questo caso, come avrà certamente prescritto il medico di base alla paziente Meloni: “Antinfiammatori non steroidei, acido acetilsalicilico, ibuprofene o ketoprofene”. In realtà, se letta in filigrana, la battuta di “Giorgia” riportata da Osnato, come l’attuale residente di Palazzo Chigi, già militante quindicenne del Fronte della Gioventù, l'organizzazione giovanile del Msi, sposato con Mariacristina La Russa, nipote di Ignazio, rivela l’antica, incancellabile brusio misto ad avversione della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, la destra diffusa, verso il presidio stesso delle organizzazioni sindacali, ritenute, diciamo, un ingombro, male non necessario. Macchina indietro: nell’ottobre del 1925, con la firma dei patti di Palazzo Vidoni, sarebbe arrivato il divieto di sciopero e la cancellazione della festa del Primo maggio. Recitava l’art. 18 della legge: “I dipendenti dallo stato e da altri enti pubblici e i dipendenti da imprese esercenti un servizio pubblico o di pubblica necessità che, in numero di tre o più, previo concerto, abbandonano il lavoro o lo prestano in modo da turbarne la continuità o la regolarità, sono puniti con la reclusione da uno a sei mesi, e con l’interdizione dai pubblici uffici per sei mesi”. Proprio vero, le radici non gelano. Resistono perfino davanti alla cravatta tricolore del conduttore e ai meloni che da tempo troneggiano sul desk di via Asiago 10.