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Giorgia Meloni privatizza tutto. Ma che fine farà il settore pubblico se neanche lo Stato lo difende?

  • di Andrea Muratore Andrea Muratore

22 novembre 2023

Giorgia Meloni privatizza tutto. Ma che fine farà il settore pubblico se neanche lo Stato lo difende?
La manovra prevede un’idea di crescita gonfiata e privatizzazioni per 20 miliardi. Per ottenere le quali vendere Ita e Mps non basterà. E se la crescita non sarà sufficiente, per ridurre il debito bisognerà privatizzare: il rischio-svendita delle aziende strategiche, unica fonte credibile di entrate per arrivare alla quota, non è da escludere se torneranno Patto di Stabilità e censura di bilancio…

di Andrea Muratore Andrea Muratore

Privatizzazioni modello Meloni: con buona pace del sovranismo, il rischio è cedere i gioielli di famiglia? Il governo mette nero su bianco con la Manovra un programma da 20 miliardi di euro di privatizzazioni di asset dello Stato per rientrare dal rapporto debito/Pil accumulato dalla pandemia in avanti che andrà perfezionato tra il 2024 e il 2026. Ma il rischio del progetto confezionato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze di Giancarlo Giorgetti è di ritrovarsi di fronte a tale necessità al crocevia tra il ritorno del Patto di Stabilità in Europa e il rischio dell’avveramento del peggior incubo economico del governo. Ovvero il ridimensionamento della crescita rispetto all’obiettivo messo nero su bianco dall’esecutivo: +1,2% nel 2024.

Giorgia Meloni
Giorgia Meloni

Cosa si rischia col piano del governo

Il rischio, sostanzialmente, è di trovarsi di fronte a un ingorgo: necessità di contenere effettivamente il debito per la minor crescita del Pil; richiami europei agli impegni presi con l’attuale manovra; necessità di cassa nel 2024 per confermare impegni presi solo per il prossimo anno in una manovra che riesce a combinare indebitamento e austerità in un esempio perfetto di visione di corto periodo. Meloni vuole privatizzare, tra asset e beni del demanio, più di quanto si sia fatto nel decennio precedente da qui ai prossimi tre anni. Nell’ultimo decennio, le privatizzazioni hanno ammontato a meno di 2 miliardi di euro l’anno, arrivando a una stima tra i 18 e i 19 miliardi di euro. Ora si vogliono mettere in circolo beni e asset pubblici per un valore triplo ogni anno, per tre anni.

Mps, Ita, Tim: il gioco delle tre carte

Il sentiero è strettissimo, dato che guardando al bilancio dello Stato l’unica grande partecipata che ha un senso riportare sul mercato, complici anche i vincoli europei, è il Monte dei Paschi di Siena, la cui quota maggioritaria (64%) è da oltre sette anni in mano al Mef. La vendita graduale di quote di Mps e un futuro risiko bancario per il suo controllo, ad oggi, potrebbe garantire fino a 2,5 miliardi di euro alle casse dello Stato. Ma cedere Rocca Salimbeni è operazione complessa che Meloni dovrà concludere arrivando laddove Giuseppe Conte e Mario Draghi non sono riusciti. Un altro mezzo miliardo può essere portato in dote da Ita Airways.

Ma privandosi di una banca salvata con un salasso di fondi pubblici e della maggior compagnia aerea nazionale, dunque, il governo raggranellerà al massimo 3 miliardi di euro. Che, en passant, basteranno giusto giusto per finanziare la costosa operazione che riporterà il Tesoro (in minoranza) a essere azionista della rete Tim al fianco di Kkr. Restano 17 miliardi di euro per arrivare a un punto di Pil di privatizzazioni. Per realizzare i quali aumenta la prospettiva di dover metter mano ai “gioielli di famiglia” in una fase in cui, dalla Francia alla Germania, il paradigma della protezione finanziaria degli asset strategici e del ritorno dello Stato a garanzia dell’interesse economico nazionale si fa sempre più forte. Antonio Tajani ha nei mesi scorsi ventilato l’idea di cedere alcuni porti al settore privato.

Marina Calderone
Marina Calderone

Oro alla patria! Così Meloni guarda alle casse per privatizzare

Di recente, invece, Giorgetti e il titolare del Lavoro, Marina Calderone, hanno iniziato a guardare alle casse previdenziali private per convincerle a investire negli asset dello Stato. Via XX Settembre vuole portare a 5,5-6 miliardi di euro il gruzzolo delle privatizzazioni cedendo nel 2024 il 30% di Cdp Equity, partecipata della banca pubblica di Via Goito, a una cordata di fondi di previdenza dei professionisti, oggi più che mai ricchi di disponibilità finanziarie. Un’operazione che però non darebbe agli acquirenti poteri gestionali e che è la svolta verso la modalità “oro alla patria” del governo Meloni.

I rischi di un flop

Il rischio è che questo piano fallisca e ci si debba ritrovare a raccoglierne i cocci sotto forma di messa sul mercato di quote pregiate del nocciolo duro delle partecipate pubbliche: dall’Eni a Leonardo, dall’Enel alla casa-madre di Cdp, parliamo di aziende attraverso cui passano buona parte delle linee di interesse dello sviluppo economico nazionale e delle prospettive di crescita del Paese. 

Arrivare a 20 miliardi di privatizzazioni è pressochè impossibile senza toccare questa cassaforte. Arrivarci potrebbe però rendersi necessario di fronte al ridimensionamento della crescita e alla futura censura di bilancio europea. Per evitar la quale Meloni deve spingere su un Patto di Stabilità europeo meno austero e con più maglie sul rientro dai debiti pandemici. Ottenibile, tuttavia, solo dopo che saranno state fatte concessioni sulla riforma del Mes, altra partita-bandiera di Fratelli d’Italia e della sua leader su cui si avvicina il redde rationem. Insomma, il sovranismo di “io sono Giorgia” rischia di infrangersi sugli scogli della realtà. Si naviga in un canale strettissimo. Il rischio di finire sugli scogli c’è, e Meloni dovrà compiere scelte difficili e, forse, economicamente penalizzanti. Nel 2024 c’è la concreta possibilità che la premier sovranista sia destinata a travestirsi da “Amato in gonnella” privatizzando quote di industrie strategiche per onorare gli impegni messi nero su bianco quest’anno. Un autogol che si può evitare solo combattendo, anche con le giuste concessioni, la decisiva battaglia sul rigore da qua a fine anno. Ma il tempo, ormai, stringe.

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