In un ristorante. In un fast food. A casa. Vi siete mai chiesti cosa mangiate ogni volta che riempite le vostre bocche con il cibo? Da dove vengono quegli alimenti? Cosa coordina il loro commercio? Chi controlla i canali globali di approvvigionamento dell'alimentazione? Dietro ad uno dei riti più antichi e comuni del mondo, e cioè sedersi a un tavolo e consumare un pasto - per fame, noia o semplice piacere - si stanno recentemente sviluppando scenari che faremmo meglio a prendere in seria considerazione. Oggi, nel mondo globalizzato, dove tutto è immediato e interconnesso, basta lo scoppio di una guerra lontana migliaia di chilometri dalle nostre abitazioni a far saltare il banco, a stravolgere intere filiere strategiche internazionali. Lo abbiamo visto un anno fa con la carenza dei semiconduttori, quando le tensioni tra Cina e Taiwan hanno minacciato di trascinare in un conflitto l'isola madre dei chip. I chip: gli stessi prodotti necessari al funzionamento dei marchingegni tecnologici che utilizziamo ogni giorno. E lo abbiamo visto, ancor più di recente, con la guerra in Ucraina. In seguito all'offensiva russa contro Kiev, e alle sanzioni europee ai danni di Mosca, Bruxelles ha chiuso i rubinetti energetici che collegavano il Vecchio Continente alla Federazione Russa di Vladimir Putin. Risultato: niente più petrolio e gas provenienti dal Cremlino, con aumento dei prezzi e una crisi energetica che stiamo tuttora scontando. Lo stesso conflitto ucraino ha acceso i riflettori anche sulla crisi del grano. Inaugurando, o meglio sdoganando, la fragilità del settore dell'alimentazione.
La fragilità del settore alimentare
Per capire meglio di cosa stiamo parlando si rimanda alla lettura de Il grande banchetto. La geopolitica del cibo, il futuro dell’alimentazione, un libro scritto da Antonio Picasso, direttore generale di Competere-Policies for sustainable development, recentemente pubblicato da Paesi Edizioni. Il volume offre ai lettori una panoramica approfondita sul tema dell'alimentazione, analizzandolo dal punto di vista economico, della sostenibilità e geopolitico. Ed è proprio quest'ultimo l'aspetto che più ci interessa. Perché nel mondo ci sono otto miliardi di persone; nel 2050 saranno dieci miliardi. Un numero esorbitante, che comporta un inevitabile incremento del cibo utilizzato per sfamare la popolazione umana. Al netto della sostenibilità ambientale e dell'impatto ecologico di una filiera alimentare sotto stress, c'è da ragionare in merito alla sua fragilità economica, strettamente collegata alla geopolitica. Basta dare un'occhiata ai prezzi dei beni alimentari, schizzati alle stelle dal 2020 in poi, e saliti ulteriormente, così come i costi delle materie prime agricole, dopo la guerra in Ucraina.
Il caso del grano ucraino
Quando un Paese leader di una filiera viene trascinato in un conflitto o in un turbinio di tensioni, il risultato è – nel migliore dei casi – un pesante aumento dei costi del bene alimentare esportato da quello stesso governo, unito alla sua carenza materiale. Tornando al braccio di ferro tra Kiev e Mosca, questo ha provocato un non trascurabile shortage di grano e semi di girasole. Un problema enorme, visto che, stando a quanto riportato dalle Nazioni Unite, l'80% del grano distribuito nel mondo dal World Food Programme nel 2023 è di provenienza ucraina. Detto altrimenti, Paesi come Afghanistan, Sudan, Kenya, Yemen, Somalia ed Etiopia dipendono da un alimento esportato sulle loro magre tavole da una nazione in guerra. E dunque impossibilitata a farlo, se non a prezzi più alti. Lo stesso vale anche per altri Paesi, non solo del Terzo Mondo o in via di sviluppo. La Spagna, ad esempio, importa da Kiev circa 2,3 milioni di tonnellate, la Turchia 1,58 milioni di tonnellate e l'Italia 435 mila tonnellate.
L'ombra delle guerre
Una guerra può stravolgere la filiera alimentare mondiale, ma può anche essere utilizzata per strozzare determinati Paesi. Pensiamo a quelli che dipendono, per i loro prodotti base, da nazioni terze. La Cina è uno di questi, e il rischio che il Dragone possa restare a secco di cibo ha spinto il presidente cinese, Xi Jinping, a rafforzare la sicurezza nazionale declinata in ambito alimentare. In che modo? Aumentando le terre coltivabili, rendendo più efficiente l'allevamento di animali chiave per la produzione di carne e stringendo accordi con governi alleati. Del resto, la crescita del consumo alimentare cinese ha superato l’offerta interna, costringendo il governo a importare settimanalmente grandi volumi di prodotti agricoli per soddisfare i suoi 1,4 miliardi di abitanti. La Cina è oggi il principale acquirente di soia, mais, grano, riso, carne di manzo, maiale, orzo e sorgo, ed è anche uno dei principali acquirenti di pollame. Negli ultimi 20 anni, oltre la Muraglia il consumo pro capite di carne di pollame è aumentato del 32%, il consumo di olio di soia è più che quadruplicato mentre il consumo di latte liquido più che triplicato. Nel 2018, quando la peste suina africana, una malattia mortale per i maiali, si è diffusa in tutto il Paese, le autorità hanno dovuto abbattere quasi il 60% della popolazione di maiali. Nel 2019, i prezzi locali della carne suina sono saliti a livelli record, facendo lievitare anche i prezzi complessivi dei prodotti alimentari. Alla fine, per soddisfare la domanda locale dell’alimento base della dieta cinese, il Dragone si è ritrovato costretto ad importare grandi quantità di carne suina dai rivali statunitensi. Da allora, l’amministrazione Xi ha cercato di diversificare le proprie fonti alimentari rivolgendosi al Sud America, in particolare al Brasile e Argentina. Considerando che, dall'inizio del XX secolo, la Cina è stata testimone di sette carestie che hanno causato la morte di decine di milioni di persone, nessuno a Pechino intende correre nuovamente quel rischio. Tanto più se dovesse essere innescato da una mossa geopolitica nemica.