Usare la forza bruta, attuando uno sbarco anfibio su spiagge blindate e protette, con il rischio di scatenare un conflitto regionale, se non mondiale, e causare la morte di chissà quante centinaia di migliaia di uomini. Oppure lavorare sui fianchi del bersaglio da inglobare, proponendo una complicata, ma non impossibile, integrazione infrastrutturale e commerciale. Soprattutto in vista delle imminenti elezioni presidenziali. La Cina sfoglia i petali della margherita per capire come, ma soprattutto quando, realizzare il grande sogno di Xi Jinping: riannettere ufficialmente Taiwan alla Repubblica Popolare Cinese.
Una Cina o due Cine?
Senza ricostruire qui la lunga storia che ha portato al presente, ai lettori basterà sapere che la comunità internazionale, Organizzazione delle Nazioni Unite compresa, riconosce una sola Cina: la Cina comunista, per intenderci. L’altra Cina, quella sorta sulle ceneri della nazionalista Repubblica di Cina di Chiang Kai Shek, ovvero Taiwan, è tecnicamente una provincia cinese. Anche se mantiene una propria indipendenza e si ritiene uno Stato a sé stante dai diktat di Pechino, e nonostante la maggior parte dei Paesi al mondo non ne riconoscano la legittimità, pur sposandone le cause indipendentiste. Dossier complicatissimo, visto che il mondo si ritrova davanti a due Stati che affermano di rappresentare il popolo cinese, ad uno che sostiene di controllare l’altro, definito “provincia ribelle”, e a quest’ultimo che si professa come autonomo. La situazione è ancor più complessa se consideriamo la posizione ufficiale degli Stati Uniti e dell’Occidente. Washington ha sposato la cosiddetta One China Policy, la politica che riconosce diplomaticamente la posizione di Pechino anche se gli Usa mantengono una strettissima relazione “ufficiosa” con Taipei, che include anche la recente vendita di armi all’isola per consentirle di difendersi da un’eventuale invasione comunista. Dulcis in fundo, chiunque desideri avere relazioni diplomatiche con la Cina deve rompere quelli con Taiwan (riconosciuta dal Vaticano, Paraguay e da una manciata di altri piccoli Stati).
Annessione morbida
E qui torniamo alla margherita di Xi. Nei corridoi di Zhongnanhai, l’insieme di edifici situati nei pressi della Città Proibita nonché sede del Partito Comunista Cinese, si ragiona sul da farsi. Nessuno qui, a differenza di quanto sostengono i media occidentali, ha fretta di fagocitare Taiwan, ma chiunque, allo stesso tempo, sa che prima o poi Taipei tornerà ad essere appannaggio di Pechino. Agli occhi della Cina, resta solo da capire quale strategia adottare per chiudere il discorso. Tralasciando l’offensiva militare, forse più un wishful thinking occidentale che non un pensiero dei leader cinesi, ecco che si fa strada l’opzione di un’annessione soft. Per intenderci, un modus operandi che, tenendo conto delle divergenze di fondo dei due casi, richiama alla mente quanto accaduto per Hong Kong: zero missili, bombe, carri armati o soldati, sostituiti dalla promessa di ricche opportunità commerciali derivanti dalla possibilità di fare affari con la Cina. Il risultato è che l’ex colonia britannica è finita sotto il controllo cinese senza che nessuno quasi se ne accorgesse, fatto salvo dell’inasprimento di alcune leggi locali. Attuare un simile piano per Taiwan sarebbe molto più complicato, viste le dimensioni e la storia dell’isola, ma altrettanto luminosa sarebbe l’offerta messa sul piatto da Pechino.
Il punto di partenza: le Isole Kinmen
Difficilmente vedremo Xi impartire ai suoi militari l’ordine di effettuare un’offensiva su Taiwan imitando quanto fatto dall’esercito russo di Vladimir Putin in Ucraina. Sia chiaro: l’ipotesi militare non deve essere esclusa, anche perché potrebbe sempre essere attuata qualora le tensioni con gli Stati Uniti dovessero raggiungere il punto di non ritorno. La sensazione è che lo scenario che sta preparando la Cina coincida con una road map formata da almeno tre fasi. La prima chiama in causa le Isole Kinmen. Che cosa sono? Isolotti abitati da circa 70mila persone, controllati da Taiwan, e situati ad un paio di chilometri da Xiamen, città della provincia cinese del Fujian. L’isola più grande, Kinmen, durante la Guerra Fredda era stata soprannominata la Berlino Ovest dell’Asia Orientale, visto che si trovava a metà strada tra la Cina comunista e i nazionalisti di Taiwan sostenuti dagli Usa. Oggi questo potrebbe essere il laboratorio dell’integrazione silenziosa di Pechino. Anche perché qui l’atmosfera è tutt’altro che bellicosa. Dalle loro coste sabbiose, gli scintillanti grattacieli di Xiamen ricordano ai taiwanesi la ricchezza e la sicurezza che Pechino potrebbe offrire se Taiwan e Cina fossero unificate. Come se non bastasse, circa il 30% dell'acqua delle Isole Kinmen viene pompata dal lago Longhu del Fujian tramite un gasdotto inaugurato nel 2018, mentre nel 2014 il governo locale dell’enclave taiwanese ha firmato un contratto con una compagnia energetica cinese per ottenere gas naturale liquefatto. Tra le parti si discute inoltre da tempo in merito al collegamento della rete energetica locale a quella cinese.
L’arma del commercio
Una volta convinte le Isole Kinmen delle conseguenze positive di una fantomatica riunificazione, ecco che la Cina passerebbe ad estendere il raggio del suo soft power sul bersaglio grosso di Taiwan. Facendo ben attenzione ad impressionare l’élite dei circa 24milioni di taiwanesi, ovvero i tycoon, gli imprenditori e i grandi capitani d’azienda ben desiderosi di estendere la portata dei loro affari. Tra l’altro, se diamo uno sguardo ai numeri, al netto di ogni tensione geopolitica l’economia di Taiwan continua a dipendere dal commercio con la Cina, ancora oggi principale partner commerciale di Taipei. Nel 2022 il valore del commercio taiwanese con Pechino ha toccato i 205 miliardi di dollari. Una cifra di tutto rispetto, se affiancata ai quasi 200miliardi di investimenti effettuati da Taiwan sul territorio cinese tra il 1991 e la fine del 2021. Ammaliare l’élite imprenditoriale dell’isola non è però un’attività facile e immediata. Il successo o meno della riuscita dipenderà anche dalle elezioni presidenziali che si terranno nella Repubblica di Cina il prossimo gennaio. Se il Partito Democratico Progressista, ora al potere, avanti nei sondaggi e avverso ad ogni forma di avvicinamento a Pechino, dovesse mantenersi al potere, l’agenda cinese si complicherebbe a dismisura. Attenzione però al Kuomintang, che sostiene gli scambi culturali ed economici attraverso lo Stretto di Taiwan, e al Partito Popolare di Taiwan, su posizioni molto simili. Nel frattempo, per agevolare il processo, la Cina logora le forze armate taiwanesi aumentando la portata e la frequenza delle esercitazioni nei pressi delle coste di Taipei. Il messaggio che Pechino intende inviare a Taiwan è chiaro: in caso di blocco commerciale, l’isola avrebbe circa 14 giorni di autonomia durante i quali utilizzare le proprie risorse – energetiche e alimentari - prima di alzare bandiera bianca. Un abbraccio morbido con la “madrepatria”, sta cercando di spiegare il Dragone al sordo popolo taiwanese, condurrà verso n futuro prosperoso e luminoso. Proprio come i grattacieli di Xiamen che si vedono dalle Isole Kinmen.