40 milioni di budget. E nemmeno un cristiano che sia stato disposto a dare una letta a Wikipedia. Glass Onion, l'atteso secondo capitolo del fortunatissimo giallo à la Agatha Christie dei giorni nostri Knives Out, è sbarcato su Netflix con l'eco di tutta la sua opulenza. Bastano palate di paperdollari e un cast di sole stelle hollywoodiane per fare un grande film? La risposta, purtroppo o per fortuna, è comunque no. Soprattutto se chi ha progettato questo blockbuster si mostra dimentico di inserirci una trama che stia in piedi meno faticosamente di un fenicottero zoppo. Smessi i panni dell'agente 007, Daniel Craig torna a vestire quelli del detective Benoit Blanc (il grande, l'irreprensibile...) e rimane incastrato tra i faraonici ingranaggi di una storia che gira a vuoto, su se stessa. Più che un film, un album di figurine con attori famosissimi nei loro migliori outfit. Visivamente intratterrà pure, ma le vicende del gruppo di ricconi "disgregatori" appaiono fin troppo disgregate. Per non parlare, poi, di quel pasticciaccio brutto combinato ai danni della Gioconda. Tanti sono i motivi per cui più che al Louvre, Glass Onion meriterebbe l'esposizione al pubblico ludibrio...
Veniamo al primo fatto criminoso, la supposta trama: in piena pandemia, un manipolo di ricchissimi paperoni statunitensi che incarnano il sogno americano (ovvero, sono diventati danarosi per aver detto o fatto una boiata al momento "giusto") vengono invitati sull'isola privata del più possidente tra loro, Miles Bron (Edward Norton). Alla masnada, per qualche motivo "misterioso", si aggiunge a sorpresa il detective Benoit Blanc. Tutti insieme dovranno risolvere un rompicapo ideato da Miles che, però, potrebbe come non potrebbe portare alla sua morte. Presi singolarmente, sono esseri umani disprezzabili. In gruppo, ancora peggio. E tutto ciò sarebbe oro, grazie anche alle sfolgoranti Kate Hudson, Kathryn Hahn e Janelle Monáe e alla compiacenza di costumisti in stato di grazia. Peccato che, di minuto in minuto, la sensazione che si stia fissando un bellissimo pacco regalo incartato divinanmente ma, stringi stringi, vuoto, si faccia sempre più prepotente.
Miles, talmente ricco da potersi permettere un intero studio-cipolla di cristallo 'ngoppa alla già sontuosissima maison, vanta anche sistemi di sicurezza domotici che profumano di 3022 e una collezione di opere d'arte originali da far invidia a qualunque museo, pubblico o privato. Fiore all'occhiello, la Gioconda di Leonardo Da Vinci, avuta in prestito dal Louvre dietro lauto pagamento con la complicità del Covid. Al capolavoro viene dato grossissimo rilievo sin dalle prime battute del film e non sarà dunque spoiler rivelare come non sia destinato a fare una bella fine. Ed è proprio qui che casca il somaro...
L'opera di Leonardo, pur protetta da una futuristica rete di security, va a ramengo nel corso dello scoppiettante finale del film. E lo fa bruciando su tela. Su tela. Che c'è di male, si domanderà? Nulla, a parte il fatto che la Monna Lisa sia stata dipinta su una tavola di legno (in pioppo, a voler fare i pignoletti). Si tratterà pure di un dettaglio, ma resta un "dettaglio" citato come prima cosa nella descrizione del capolavoro su Wikipedia. Non era difficilissimo accorgersene. Possibile mai, poi, che, a fronte di 40 milioni di budget, nessuno, nemmeno l'ultimo degli stagisti, si sia dato la pena di verificare, prima di "incendiare"?
Ad aggravare la boiata, scende in campo anche il fatto che non si tratta di un passaggio di poco conto. La Gioconda è quasi l'unica vera protagonista dell'intero lungometraggio, lo è di sicuro in quanto a personalità, più volte citata come fosse Antani ancora prima della sua apparizione in scena. Fa parte, infatti, del motto che riassume la "vision" dell'arcimilionario Miles ("Voglio essere artefice di qualcosa che verrà ricordato per sempre, come la Gioconda") e che l'uomo ripete a ogni miliardata di dollaro sospinta. Il diavolo sta nei dettagli, si dice. Così come la cura con cui viene realizzato un film che si dà pure prepotenti arie da colosso dell'intrattenimento "witty". Brillantissimo, anzichenò.
Per quanto riguarda le vicende dei personaggi, se Knives Out, già diretto dallo stesso Rian Johnson, forniva un buon giallo à la "Indovina chi" (è l'assassino), qui a morire è solo l'interesse dello spettatore, falcidiato da location opulente e camei di prestigio (spunta anche Hugh Grant, ma solo nel ruolo di "usciere") che tentano di distrarlo da un mistero pigrissimo. Vale davvero la pena di perdere due ore dietro a una storia troppo innamorata di se stessa per ricordarsi di intrattenere? La domanda è retorica. Come, del resto, l'intera sceneggiatura di Glass Onion. Una zeppa continua che, affannata a cercare di sembrare qualche cosa, alla fine non è più niente. Però, se siete nostalgici degli album di figurine da collezione, l'effetto "wow" del "guarda chi c'è!", vi farà tornare marmocchi in festa. Hype celo, intrigo... manca. Peccato. Peccato soprattutto perché riguardo ai grandi misteri risolti, di volta in volta, dal detective Benoit Blanc, l'intenzione delle major è quella di fare una vera e propria saga. Aridatece Poirot.