Una parabola brevissima nel Secolo Breve. Michail Sergeevič Gorbaciov se ne va all'età di 91 anni e c'è persino qualcuno che brinda. Lo ha fatto Marco Rizzo , segretario del partito Comunista, che essendosi cucito addosso un ruolo da Gabibbo dello stalinismo ha voluto spararla grossa via Twitter, ottenendo in fondo ciò che cercava: un'ondata di riprovazione e il veleggiamento verso i lidi del trending topics. Rizzo ha scritto che dal '91 aspettava questo momento. Cioè da quando l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (Urss) ha cessato ufficialmente di esistere, disgregata dal processo riformatore avviato dall'ultimo segretario del Partito Comunista dell'Unione Sovietica (Pcus) ma ancor più dall'obsolescenza di un sistema intero. E assieme al sistema usciva di scena Gorbaciov, l'uomo che ne aveva anche accelerato il mutamento. Lo stesso mutamento che, a seconda dei punti di vista, è stato etichettato come modernizzazione o come smantellamento.
Proprio attorno a questo dilemma si conduce la disputa attorno alla figura dell'ex segretario generale del Pcus nonché ultimo presidente dell'Urss, rimasto in sella poco più di sei anni. Un lasso di tempo minimo nel corso del quale si è registrato uno fra i più profondi mutamenti nella storia universale. Talmente profondo da spingere qualcuno a parlare di fine della Storia stessa. In realtà iniziava un'altra Storia, libera dalla minaccia dell'equilibrio di tensione fra le due superpotenze ma anche disorientata in maniera crescente dalla perdita di quello schema, che almeno aveva il pregio di dare un punto di riferimento certo alle paure. E invece le paure, da quel momento in poi, hanno preso a galoppare brade e a prendere sembianze cangianti: gli integralismi, la globalizzazione spietata (e anche grandemente banalizzata, in molte delle sue narrazioni), i protagonismi minacciosi di nuove super-potenze, le pandemie, la minaccia climatica. Tutto un nuovo barometro delle ansie quotidiane che non sappiamo più governare. E che probabilmente si sarebbero manifestate comunque, anche nel caso che Michail Sergeevič agisse come un qualsiasi segretario generale del Pcus e tenesse ancora in vita il necrotico equilibrio di tensione fra le superpotenze. Ma poiché anche grazie alla sua iniziativa politica riformatrice (o reazionaria, secondo i punti di vista à la Rizzo) è stato possibile vedere accelerare quello sconvolgimento, ecco che la figura del grande leader scomparso ieri assume una rilevanza del massimo grado.
Certamente è stato un uomo che ha cambiato il corso della storia. E altrettanto certamente è stato un personaggio stimato più dall'Occidente (e forse nemmeno tutto) che in casa propria o nell'area dei paesi affiliati all'ex Patto di Varsavia. Un doppio standard del giudizio con cui Michail Sergeevič si è dovuto confrontare dal giorno della sua uscita di scena politica. Che cominciò a consumarsi nei giorni del fallito golpe militare, quel tentativo di rovesciare il processo di perestrojka ormai inarrestabile. Quel golpe ebbe due soli effetti: dare il colpo di grazia all'Urss (gran paradosso, visto che i generali avrebbero voluto recuperarne lo status di potenza bipolare) e mettere definitivamente fuori gioco Gorbaciov. Che era rimasto per 72 ore sequestrato dentro una dacia in Crimea, e una volta giunto a Mosca era già esautorato di fatto, prima ancora che l'alcolista Boris Eltsin lo umiliasse in mondovisione trattandolo come un minus habens. E comunque la si pensi su di lui, non si può non concordare sul fatto che almeno questo trattamento non lo meritasse. Così come non meritava il quasi oblio cui è stato condannato dopo l'uscita di scena. Come fosse stato un qualsiasi capo di stato o di governo e non l'uomo che ha determinato una svolta epocale. Si continua a consultare un Kissinger per fargli dar fiato sui grandi temi della politica internazionale ma nessuno cercava Gorbaciov. Come se infine anche sul fronte occidentale ci fosse una certa cattiva coscienza verso di lui.