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Il grande ritorno al Sud: perché i millennials (ma anche i boomers) stanno lasciando il Nord Italia

  • di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

2 settembre 2025

Il grande ritorno al Sud: perché i millennials (ma anche i boomers) stanno lasciando il Nord Italia
Dal boom economico all’era dello smart working: migliaia di giovani scelgono di tornare al Mezzogiorno. Non è nostalgia, ma una critica al sistema che li ha traditi. Ecco tutte le ragioni: dalle situazioni insostenibili alle nuove opportunità

di Leonardo Caffo Leonardo Caffo

In un mondo dove il movimento è l’essenza stessa dell’esistenza – un flusso incessante di corpi, idee e capitali – il ritorno non è mai solo un passo indietro anche se spesso è stato visto così. È un atto di resistenza, forse, una riconsiderazione dell’umano nel suo rapporto con il territorio, una critica silenziosa al mito del progresso lineare che ha dominato il Novecento e oltre. Ma qualcosa oggi è cambiato. Pensiamo al Sud Italia non come a una periferia dimenticata, ma come a un centro gravitazionale alternativo, un luogo dove le illusioni del Nord – quel Nord industriale, frenetico, promettente – si dissolvono nello spazio di una realtà più autentica, qualsiasi cosa significhi, seppur imperfetta. Oggi, nel 2025, assistiamo a un fenomeno che potremmo definire il “grande ritorno al Sud”: migliaia di individui, soprattutto millennials ma non solo, che abbandonano le metropoli settentrionali per riabbracciare le radici meridionali. Non è nostalgia romantica e neanche un semplice fallimento, bensì una risposta razionale e filosofica a un sistema che ha deluso, tradito e svuotato le speranze di un’intera generazione. Quella generazione che poi è stata anche la mia. Henri Lefebvre: lo spazio non è neutro, è prodotto sociale. E su questo non ci piove. Il Nord Italia, con le sue fabbriche, i suoi uffici open space da società di consulenza e i suoi stipendi che promettevano mobilità sociale, si è rivelato uno spazio di alienazione che non ha fatto altro che svuotare qualcosa senza riempire qualcosa di altro. Il Sud, invece, oggi forse offre un’alternativa improvvisa. un ritmo non più lento ma alternativo, costi della vita accessibili, una comunità che resiste alla frammentazione individualista del capitalismo avanzato. Ma questo ritorno è anche un sintomo di fallimento collettivo, direte voi. Le statistiche parlano chiaro: dal 2012 al 2021, il Mezzogiorno ha perso circa 1 milione di residenti netti a causa della migrazione interna, con 1.138 milioni di movimenti in uscita verso il Centro-Nord e solo 613mila in entrata. Eppure, nei bienni più recenti, come il 2023-2024, i trasferimenti inversi – dal Nord al Sud – hanno raggiunto le 125mila unità, un segnale di inversione parziale del trend. È qui che si innesta la delusione: non solo economica, ma esistenziale. Ma cerchiamo di vedere in positivo le cose.

È in corso un “grande ritorno al Sud”?
È in corso un “grande ritorno al Sud”?

Per comprendere il ritorno, dobbiamo ripercorrere il cammino opposto. Dall’Unità d’Italia in poi, il Sud è stato percepito come un serbatoio di manodopera per il Nord industrializzato. Negli anni ‘50 e ‘60, il “boom economico” attirò milioni di meridionali verso le fabbriche di Milano, Torino e Genova. Era l’era della Fiat, dell’Olivetti, di un’Italia che sognava di diventare una potenza europea. I dati Istat rivelano che tra il 1955 e il 1970, circa 9 milioni di persone si trasferirono dal Sud al Nord, con un saldo netto negativo per il Mezzogiorno di 3,7 milioni.  Questa migrazione non era solo economica: era un atto di fede nel progresso, nella meritocrazia, in un sistema che prometteva ascesa sociale attraverso il lavoro. Ma le promesse si sono infrante, oggi sembra chiaro a tutti. La globalizzazione, la deindustrializzazione e la crisi del 2008 hanno trasformato il Nord in un paesaggio di precarietà condita da “presunte opportunità irrinunciabili”. I millennials, nati tra il 1981 e il 1996, sono entrati nel mercato del lavoro proprio quando le certezze svanivano. Cresciuti con il mito del “posto fisso” ereditato dai boomers, si sono trovati di fronte a contratti a termine, stage non retribuiti e stipendi stagnanti. Secondo un rapporto Ipsos del 2023, il 70% dei millennials italiani si sente “tradito” dalle aspettative create dalla società: pensavano di avere più opportunità dei genitori, ma il potere d’acquisto è diminuito.  Nel 1990, uno stipendio medio di 1.200 euro equivalenti permetteva un tenore di vita dignitoso; oggi, con inflazione e costi immobiliari alle stelle, 1.500 euro al Nord bastano a malapena per sopravvivere. Il divario salariale Nord-Sud persiste, ma il costo della vita al Nord lo amplifica. A Milano, un appartamento di 50 mq costa in media 1.200 euro al mese di affitto; a Napoli, la metà. Gli stipendi al Nord sono più alti (media 1.800 euro netti vs 1.400 al Sud), ma dopo spese fisse, il residuo è simile o inferiore. Aggiungiamo la qualità della vita: traffico, inquinamento, isolamento sociale. Come diceva Zygmunt Bauman con quel ritornello citato e mai capito? Viviamo in una “società liquida” dove le relazioni si dissolvono; ma al Sud, la rete familiare resiste, offrendo un cuscinetto contro la precarietà. O comunque opponendo a un sistema hegeliano fallito un sistema hegeliano resistente. La pandemia da Covid-19 ha accelerato questo ritorno. Dal 2020 al 2025, lo smart working ha liberato migliaia di lavoratori dai vincoli geografici. Non più obbligati a pendolare verso uffici milanesi, molti hanno scelto di tornare al Sud, mantenendo impieghi remoti con stipendi settentrionali. Dati Svimez indicano che tra il 2020 e il 2023, i rientri netti sono aumentati del 15%, con circa 62.500 persone all’anno che scelgono la rotta inversa.  Non è un’esodo di massa, ma un trend significativo: nel biennio 2023-2024, 125mila trasferimenti dal Centro-Nord al Mezzogiorno, contro 241mila in direzione opposta. Le cause sono multiple. Economicamente, la delusione per stipendi che non crescono: dal 2013, le retribuzioni reali sono calate del 4% in Italia, dell’8% al Sud, ma al Nord l’inflazione erode di più. Filosoficamente, è una critica al capitalismo neoliberale neanche troppo mascherata. I millennials, educati a credere nel “self-made man”, si sono scontrati con un sistema che premia eredità e connessioni, non merito. I nati ricchi sono rimasti ricchi mentre noi nati normali siamo fissati a uno strato di semi povertà.  Un sondaggio VICE del 2016 – ancora attuale – rivela che il 70% dei giovani italiani ha perso speranza nel futuro.  La generazione Z segue a ruota, con astensione elettorale al 45% tra i millennials, sintomo di disillusione politica. 

Filosoficamente, è una critica al capitalismo neoliberale
Filosoficamente, è una critica al capitalismo neoliberale

Non solo millennials: boomers in pensione tornano per godersi il clima e i costi bassi, mentre famiglie con figli cercano ambienti più salubri. I millennials rappresentano il nucleo di questo ritorno. Cresciuti negli anni ’90, con la Tv che trasmetteva sogni di ricchezza e culi scooerti gentilmente offerti dal berlusoconismo, sono entrati nel mondo adulto durante la Grande Recessione e il grande moralismo. In Italia, il tasso di disoccupazione giovanile ha toccato il 43% nel 2014; oggi, al Sud è al 28%, al Nord al 15%.  Ma il problema non è solo il lavoro: è la qualità. Molti accettano posizioni sottoqualificate, con stipendi che non permettono indipendenza. Un report Execo stima che i millennials italiani superano il 30% della forza lavoro, ma il 37% vive ancora con i genitori. Le speranze tradite sono evidenti nei dati: dal 2008 al 2015, il Sud ha perso 12 punti di Pil, il doppio del Nord. I Neet al Sud sono il 36%, doppio del Nord. Filosoficamente, questo è un tradimento del contratto sociale hegeliano di cui sopra: lo Stato promette realizzazione attraverso il lavoro, ma consegna alienazione. In un mio vecchio libro “Essere giovani”, riflettevo sullo stato della giovinezza come condizione di possibilità: ecco i millennials sono stati derubati di questa possibilità, spinti a un ritorno che è riappropriazione del tempo e dello spazio. Storie personali abbondano. Immaginate un ingegnere catanese a Milano: stipendio 2.000 euro, affitto 1.000, vita sociale nulla. Torna a Catania, lavora remoto, risparmia 500 euro al mese, scopre l’inganno. Non è regresso: è post-capitalismo, un rifiuto del “sempre di più” per un “abbastanza”. Ecco la parola magica. Questo ritorno non è senza sfide. Il Sud soffre di infrastrutture carenti, burocrazia, assenza di offerte sociali paragonabili ad altri luoghi.  Il PIL pro capite è la metà del Nord.  Ma porta capitale umano: laureati che aprono startup, portano know-how digitale. Svimez nota che dal 2022, il 42% degli emigrati è laureato, ma i rientri crescono. Potrebbe invertire lo spopolamento: proiezioni al 2080 prevedono 8 milioni in meno al Sud, ma con Pnrr e smart working, forse no. Il grande ritorno al Sud è una critica vivente al sistema che ancora ci viene venduto come spendi-produci-crepa. Non risolve tutto, ma sfida il dualismo Nord-Sud. È una geografia cartesiana che viene messa in discussione, un’opportunità per ripensare l’umano: non come macchina produttiva, ma come essere radicato. Le speranze tradite dei millennials non sono fine, ma inizio di un nuovo paradigma. Il Sud non aspetta più: accoglie chi torna, pronto a costruire. Altro. Qualcosa da inventare e che vedremo, a breve 

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