L’assemblea di Mediobanca slitta al 25 settembre, congelando il destino dell’ops su Banca Generali e lasciando sul tavolo un mosaico complesso, dove poteri forti e giochi di palazzo si intrecciano in un duello al fulmicotone. Dopo giorni di pressione sul titolo Banca Generali, l’azione si muove a sconto, mentre la triestina Generali resta piatta, in attesa di mosse decisive. Alberto Nagel, ceo di Mediobanca, è costretto a correre contro il tempo per definire nuove alleanze tra Milano e Trieste, mentre gruppi come Caltagirone e Delfin (la cassaforte di Francesco Milleri, uomo di fiducia di Leonardo Del Vecchio) mantengono la loro opposizione con l’arma dell’astensione. Il ritorno atteso per gli azionisti sfiora il 30 per cento, ma nel cuore del Leone di Trieste si agitano dubbi e strategie per non perdere terreno: l’uscita dalla rete di consulenti potrebbe erodere i profitti, e per questo servono accordi nuovi, capaci di rassicurare soci chiave e garantire un futuro meno incerto. E mentre questa partita si consuma, sullo sfondo si staglia la mossa di Monte dei Paschi, pronta a lanciare la sua offensiva su Mediobanca, con la Bce che attende a metà settimana per dare il suo verdetto. Se l’ops di Mps passerà, sarà l’inizio di un terremoto nel risparmio italiano. Ma se la partita dovesse arenarsi, allora si spalancherebbero le porte per Nagel di sferrare il suo attacco su Banca Generali, senza più ostacoli assembleari. Il rinvio ha dato tempo e ossigeno al banchiere per radunare le truppe, ma i venti di guerra sono lontani dal placarsi. Tra accuse di eccessivo potere e rischi di stallo, non è detto che il Leone riesca ancora a dominare il campo.

Dietro le quinte di questo scontro titanico si nasconde la storia recente e meno recente di Mediobanca, nata dall’ombra ingombrante di Enrico Cuccia e plasmata dall’impronta decisa di Alberto Nagel. Il manager entrato nel 1991 ha trasformato un gioiello di famiglia in un gruppo bancario con il fiato lungo, puntando su settori a più alto valore aggiunto come il credito al consumo e il wealth management, mentre smantellava un modello obsoleto fatto di partecipazioni incrociate e rendite di posizione. Con la creazione di Che Banca! e la vendita di asset non strategici, Nagel ha guidato la transizione da holding a vero gruppo bancario, puntando a una solida patrimonializzazione e a una crescita sostenibile. Ma la sua ascesa ha fatto nascere anche molti nemici: Leonardo Del Vecchio, che con Delfin ha preso il 20 per cento del capitale Mediobanca, non ha mai digerito i freni imposti a Generali e ha accusato Nagel di immobilismo e di non sfruttare appieno le occasioni di crescita. Dall’altro lato, i soci storici come Caltagirone e i gruppi istituzionali osservano con crescente sospetto la concentrazione di potere, pronti a usare ogni leva per spezzare un legame che, a loro dire, ha ingessato il sistema. Questa frattura interna è il vero motore delle manovre di mercato in corso, con il Monte dei Paschi che si inserisce come un ariete nella partita, sostenuto da chi vuole vedere il sistema cambiato a fondo. Non mancano però le ombre sullo sfondo giudiziario, con la Procura di Milano che sta indagando sulla tranché di privatizzazione del Monte e i suoi intrecci con soci di Mediobanca e Generali, un dossier che promette di accelerare e mettere ancora più pressione su un sistema già sfilacciato. Nel frattempo, si attendono i pronunciamenti di Bce, Consob e DgComp, che dovranno dare il via libera alle offerte che potrebbero ridefinire gli equilibri del risparmio gestito in Italia. Tra sospetti, rinvii e giochi di potere, l’ipotesi di un ritorno dello Stato, in un ruolo simile a quello delle vecchie Bin, non è più un tabù e fa tremare il mercato. La partita non è solo economica, ma soprattutto politica e strategica: chi controllerà Mediobanca e Generali nei prossimi mesi deciderà anche il futuro del risparmio nazionale. E mentre il sipario si alza su questo grande teatro di affari, in molti scommettono che la vera sorpresa potrebbe arrivare dal terreno giudiziario, dove le carte sono ancora tutte da scoprire.

Ma a tenere banco in questi giorni infuocati, c'è un’altra importante operazione bancaria che sta catalizzando l’attenzione degli addetti ai lavori: l'ops di Bper su Banca Popolare di Sondrio (Popso). Secondo quanto riportato da Milano Finanza, infatti, “i vertici della banca, con una nota dettagliata, hanno sollevato numerosi obiezioni all'offerta”. Tra queste, c'è il prezzo delle azioni stimato da Bper che non rifletterebbe "il reale valore dell'istituto", aggiungendo che il banco modenese non avrebbe tenuto conto delle proiezioni ufficiali presentate da Popso, secondo cui il banco prevede 1,8 miliardi di euro e 1,5 miliardi di dividendi in tre anni. Il cda di Popso si è poi espresso contro la soglia minima di adesione all'operazione presentata da Bper. Una soglia del 35 per cento più un'azione che “è tra le più basse mai osservate in operazioni simili”. Le rassicurazioni di Bper, che ha parlato della “centralità” del banco valtellinese nel progetto di acquisizione e in merito agli scenari futuri, non convince per niente. Lo ha detto chiaro e tondo qualche giorno fa anche l’ad Alberto Pedranzini al Sole 24 Ore: “La banca ha sempre seguito una crescita organica, a differenza di Bper che ha fatto una ventina di aggregazioni. A Sondrio siamo passati da 50 a 500 sportelli con le nostre forze. In questa operazione con Bper ci sarebbero più sinergie da costi che da ricavi. I tagli al personale potrebbero coinvolgere circa 800 persone, con chiusure di molte filiali: una situazione nuova per noi, che non abbiamo mai fatto licenziamenti né attivato il fondo esuberi".