Mediobanca è diventata la cassaforte a cui gira attorno il risiko bancario. Per questo, vive giorni da thriller finanziario. Da un lato la storica eleganza compassata di Piazzetta Cuccia, dall’altro l’assalto sempre più deciso della Delfin di Del Vecchio (ora erede), che alza la posta per pesare più nel futuro di Generali e negli asset strategici. In mezzo, Alberto Nagel, gran tessitore, che si barcamena tra piani industriali e manovre da risiko, cercando di non farsi stritolare nella guerra per procura che vede in campo vecchie glorie e nuovi pretendenti. Il risiko bancario italiano si gioca anche qui: Mediobanca non è solo banca d’affari, è la regia (spesso occulta) di quel che accade nel grande giro delle aggregazioni. E intanto le mura storiche tremano, strette tra le ambizioni di rafforzarsi all’estero e la necessità di blindarsi dagli appetiti che arrivano anche da Parigi. Ma mentre Nagel prova a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, da Francoforte l’invito a non perdere tempo e a completare l’Unione bancaria risuona come musica ignorata: troppo presi dalle lotte di cortile per sentire la sinfonia europea.

Intanto Bper cerca di infilare il colpo grosso con la Popolare di Sondrio, ma si ritrova con una netta opposizione e con numeri da far quadrare. Come riportato dal Sole 24 Ore Pedranzini, ad di Sondrio, non si fa incantare dall’ops di Bper e smonta con dovizia di percentuali e proiezioni ogni promessa di sinergie miliardarie. Anzi, dalle Alpi valtellinesi arrivano fendenti: il piano industriale di casa, dice il banchiere, vale di più e non ha bisogno di stampelle. Le cifre sono sparate come colpi di fucile: utile netto cumulato da 1,8 miliardi, pay-out all’85 per cento contro il 75 per cento promesso da Bper, produttività doppia, cost/income da far invidia. In pratica, un messaggio chiaro: non vendiamo al ribasso e non ci facciamo commissariare. E mentre i sindacati già fiutano licenziamenti e tagli mascherati da sinergie, l’aria in Valtellina si fa pesante: la piccola banca di montagna non vuole finire nel tritacarne delle aggregazioni. Le voci di sportelli da chiudere e teste da tagliare fanno tremare il quieto vivere delle filiali che finora avevano visto crescite fatte in casa, senza l’aiutino di fusioni a catena.

Sul palcoscenico europeo, intanto, la Banca centrale europea (Bce) si sgola come una maestra con la classe indisciplinata: “Statevene fuori dal risiko”. Frank Elderson, membro del Comitato esecutivo e vicepresidente del Consiglio di vigilanza della Bce, lo dice chiaro: la vigilanza non metterà i bastoni tra le ruote se il consolidamento sarà fatto con tutti i crismi, ma basta interferenze politiche. La banca centrale, già scottata da anni di paralisi sui dossier unione bancaria e assicurazione dei depositi, ora vuole vedere fatti e non più meline. L’appello è il solito: basta mercatini nazionali, servono colossi continentali che possano reggere l’urto di crisi e dazi, altro che balletti con le minoranze azionarie e i salotti buoni. Ma come al solito, mentre Francoforte fa appelli alla grande finanza unita, giù nei piani bassi le banche italiane si scannano per qualche filiale in più e un po’ di dividendi da promettere. Il risiko resta, e l’Europa continua a guardare sconcertata il teatrino dei piccoli potentati bancari.