Il risiko bancario è lontano dal compiersi, con buona parte dei tentativi di acquisizione che ancora devono misurarsi con il parere di investitori, enti regolatori e interventi dello Stato. Unicredit, certo, con il Golden Power del governo sull’offerta pubblica di scambio (ops) su Banco Bpm, ma anche Mediobanca, Bper, Generali – per citare i soggetti più noti – stanno procedendo a singhiozzo. Ma a correre veloci, ormai da un po’ di mesi a questa parte, sono i profitti degli stessi istituti. Quasi tutti hanno annunciato aumenti notevoli – per alcuni “storici” – alla pubblicazione dei dati trimestrali del 2025; un trend che segue, in crescendo, quello del 2024, dove i ricavi complessivi delle dieci principali banche ha raggiunto i 64 miliardi di euro. Alla base di questo risultato c’è, innanzitutto, la decisione di aumentare i tassi di interesse da parte della Banca centrale europea (Bce) nel 2023, presentata come una contromisura all’inflazione galoppante che stava interessando l’Unione europea e non solo, amplificata dall’irrigidirsi del contesto internazionale dopo l’inizio del conflitto russo-ucraino. Una misura di politica monetaria che non ha sortito l’effetto sperato o (quantomeno) annunciato. Una stortura che è stata evidente anche nel nostro paese, dove le banche italiane hanno progressivamente aumentato gli interessi attivi, cioè il tasso a cui vengono erogati i prestiti, lasciando però invariati quelli passivi, cioè gli interessi che maturano sui depositi lasciati in banca dai risparmiatori. Il risultato? Dal 2023 ad oggi le banche hanno registrato ricchi extraprofitti, adeguando i loro guadagni all’inflazione. Una dinamica che non è stata replicata sul potere d’acquisto dei piccoli risparmiatori.

Ma l’arricchimento del settore bancario a scapito dei risparmiatori potrebbe essere solo il primo dei paradossi che riguardano il settore del credito. Già, perché secondo alcune stime preliminari, il risiko bancario potrebbe impattare anche sui dipendenti degli stessi istituti: la Fabi, il principale sindacato italiano nel settore bancario, ha parlato di “103mila bancari” che rischiano di essere coinvolti in questa grande trasformazione. Ma in che modo? La prima delle preoccupazioni è, ovviamente, quella dei tagli: “La concentrazione – derivante dalle fusioni ndr – non può significare né chiusura di agenzie né compressione dei diritti”, dicono dai sindacati. In effetti, basta guardare agli ultimi anni per notare che le acquisizioni abbiano ridotto il numero dei lavoratori. Nel 2019 il settore contava 22 gruppi e 280mila dipendenti: le ops realizzate tra il 2020 e il 2022 hanno ridotto il numero dei lavoratori di 20mila unità, facendolo scendere, dunque, agli attuali 260mila, distribuiti in 18 gruppi bancari. Tra queste operazioni ci sono l’acquisizione di Ubi da parte di Intesa San Paolo, che coinvolse oltre 90mila lavoratori, quella di Carige operata da Bper, che ha interessato oltre 23mila dipendenti, solo per citarne alcune. Le offerte di scambio in piedi oggi, ben cinque, riguardano 102.700 lavoratori, praticamente più di un dipendente su tre: Unicredit-Banco Bpm, Banco Bpm-Anima, Bper-Popolare di Sondrio, Mps-Mediobanca e Ifis-Illimity. Durante un convegno organizzato dalla Fabi a marzo, si è parlato soprattutto dell’impatto che la digitalizzazione e l’uso dell’intelligenza artificiale potrebbero avere nella riorganizzazione del lavoro e, di conseguenza, del personale.
