Henry Kissinger è morto poco dopo il passaggio nella cifra tonda del secolo di vita. Con lui, forse più che con chiunque altro, si può considerare vero il refrain dell’addio al Novecento spesso associato alla morte di grandi protagonisti di quello che, ironia della sorte, non è stato il “secolo breve”. Ma bensì un secolo lungo proiettatosi nel Duemila con le sue logiche, le sue eredità, il suo fardello di progresso sociale e abissi di brutalità, di innovazioni tecnologiche e furia ideologica. Kissinger ha navigato a lungo, prima come accademico, in seguito come stratega della presidenza Usa di Richard Nixon e Gerald Ford e infine come teorico, consulente e studioso le relazioni internazionali. E per almeno cinque motivi la sua opera, comunque enormemente controversa, è destinata a entrare nella storia.
Il ritorno degli imperi
Il primo dato di fatto del Kissinger-pensiero e della sua influenza si può riassumere nel ritorno della dialettica imperiale nelle logiche della politica globale. Kissinger è un uomo del Novecento che ha appreso alla perfezione le lezioni del Congresso di Vienna e dell’era post-napoleonica. Ma soprattutto della crisi globale scatenata dalla nativa Germania da cui, giovane ebreo, dovette scappare per non cadere sotto la coltre del nazismo. La guerra motivata da ragioni di dominio e ideologia portò all’annientamento fisico del Reich di Hitler e del Giappone imperiale. La Guerra Fredda entro cui Kissinger si mosse divenne, per l’accademico di Harvard già veterano del controspionaggio Usa, un terreno fertile per costituire una dialettica fondata sull’equilibrio delle grandi potenze.
Come il Congresso di Vienna non restituì un mondo pacifico ma lo stabilizzò a livello di sistema. A Kissinger è ampiamente riconosciuto il merito di aver promosso la politica di distensione che ha plasmato l'approccio degli Stati Uniti alle relazioni con l'URSS negli anni '70. Attraverso negoziati con l’Unione Sovietica, lui e Richard Nixon, allora presidente, stabilirono il trattato SALT sul controllo degli armamenti che mirava a ridurre il numero totale di armi nucleari sulla terra. Parallelamente, gli Usa si aprivano alla Cina per rompere l’unità del campo comunista. Si arrivò a una condizione in cui sia Mosca che Pechino avevano più facilità a parlare con gli Usa che l’una con l’altra. Washington aveva consolidato un ordine mondiale fondato sulla primazia delle potenze “imperiali” e delle reciproche linee rosse in nome del mantenimento della stabilità di un sistema forse subottimale ma capace d’evitare le tragedie di un nuovo conflitto globale.
La diplomazia personale
In secondo luogo, Kissinger ha portato in auge il concetto di diplomazia personale. Se l’impero supera gli Stati nazionali, era il pensiero di Kissinger, è la relazione diretta tra leader e esponenti a poter tagliare i nodi gordiani tra gli Stati. Superando, inoltre, quel sostanziale principio egualitario, da lui visto come ipocrita, nel dibattito di forum come l’Onu. Ha enfatizzato l'importanza del bilateralismo nelle trattative, spesso cercando di gestire personalmente le relazioni con i leader delle nazioni avversarie, come nel caso del ritiro delle truppe americane dal Vietnam che gli valse il Nobel per la pace nel 1973. Questo approccio mirava a creare un terreno comune e ad affrontare le questioni direttamente tra le parti interessate.
L'ideologia del potere
Un po’ Metternich, un po’ Tayllerand, Kissinger plasmò inoltre la forza del sistema di potere americano come strumento di costruzione del consenso per le campagne della superpotenza a stelle e strisce. Per Kissinger il potere era “l’afrodisiaco supremo” e uno sistema da gestire, non un oggetto da possedere. In Kissinger non si vede tanto il “realismo” spietato di cui tanti l’hanno accusato, quanto un uso strumentale di ogni ideologia, visione del mondo e struttura politica al servizio dell’interesse nazionale supremo: la sicurezza americana. L’ideologia di Kissinger era il potere. In quest’ottica, il potere inteso come sistema prevalicava lo stesso principio democratico di cui Washington si faceva alfiere. Le responsabilità di Kissinger nel sostegno al golpe in Cile e alla crisi dell’Indonesia della dittatura castrense nata negli Anni Sessanta sono la parte più visibile, e criticabile, di questo operato.
La democrazia strumentalizzata
Ma non bisogna partire da un presupposto errato: Kissinger non era un democratico. E la strumentalizzazione della democrazia a fini “geopolitici” è il quarto punto dell’analisi. Se con leader a lui coevi come Giulio Andreotti condivideva l’opzione dell’ordine mondiale fondato su imperi ma, al contrario di figure come il Divo sempre attivamente democratiche nel loro ethos, Kissinger aveva una scarsa o nulla fiducia per la democrazia rappresentativa. Il figlio della Germania scampato all’Olocausto, dopo la guerra, entrò a far parte di un nuovo gruppo di “esperti” della Guerra Fredda che usarono le loro conoscenze e il loro accesso per influenzare l’opinione pubblica. Kissinger e i suoi colleghi intellettuali della Guerra Fredda promuovevano l’idea dell’America democratica all’estero limitando la democrazia in patria. “Non sono stati eletti, non hanno sottoposto le loro ipotesi a un dibattito pubblico aperto e non hanno incoraggiato punti di vista alternativi. Credevano nella democrazia, ma enfatizzavano una leadership forte, il consenso e la coerenza nell’affrontare il comunismo”, ha scritto il centro Gilder Lehrman su Kissinger. La cui opera storica ha aperto la strada poi alla presa di potere di uno Stato profondo di funzionari, studiosi e consulenti di visione egemonica negli anni finali della Guerra Fredda e dell’ascesa di neoconservatori e neoliberali sia democratici che repubblicani. Figli del Kissinger-pensiero del primato assoluto della sostanza sui formalismi politici – e democratici – contro la cui regia politica, che produsse i disastri mediorientali degli Usa e contribuì all’attuale crisi delle relazioni internazionali, il nostro si è più volte lanciato.
La tragedia della storia
Il pensiero di Kissinger è stato più volte messo in secondo piano nelle analisi teoriche sulla sua opera, e spesso non traspare nemmeno negli scritti dell’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale e Segretario di Stato Usa. Per l’analista Leonardo Palma, in un bell’articolo pubblicato da Pandora Rivista, in definitiva resta centrale il tema della storia come tragedia. Palma nota: “Il problema che Kissinger sollevò nel 1950 è rimasto centrale nella sua visione piuttosto drammatica della storia e della diplomazia. Una visione in cui collidono e finiscono per scontrarsi il regno dell’intelletto con il regno del potere, o “ciò che è giusto” contro “ciò che è possibile”. Ma, nota Palma, “nel regno del potere, che coincide con il mondo fenomenico percepito dalla natura, la scelta che si è chiamati a fare è limitata a diverse forme di male perché «non possiamo mantenere i nostri principi se non sopravviviamo». Qui sta la tragedia del potere e la tragedia della storia. Se il noumeno che produce le apparenze è percepito solo attraverso l’esperienza personale, allora l’uomo è sostanzialmente solo di fronte all’esistenza, come una foglia in un uragano. Kissinger riconosce la presenza di un conflitto tra il regno dell’intelletto e il regno del potere, dove la domanda a cui si deve tentare di rispondere diventa: può l’idealista abitare il mondo reale del potere e conservare i suoi ideali?”. Da questa visione nascono tensioni, cinismi, scelte realistiche e discutibili e letture intellettuali di Kissinger. Il quale, rifacendosi alla storia, si era reso conto del lungo pendolo tra fasi di conflitto e fasi di stabilità. Impossibilitato ad accomodarsi tra i santi da una visione resa cinica e disincantata dagli orrori che aveva visto e studiato, aveva scelto di essere un pragmatico peccatore col grande gioco delle relazioni globali. Tanto da arrivare, negli ultimi anni della sua vita, a essere un profeta visionario per i rischi del futuro. Ascoltato da ogni decisore, ricevuto da Xi Jinping, Vladimir Putin e molti grandi della Terra, prolifico autore su temi come l’innovazione e la diplomazia, mise al centro il tema dell’assenza di leadership in un mondo moderno che rifiutava il compromesso. E in cui lo stesso ordine imperiale di potenza affidato alla custodia della human diplomacy rischiava di collassare, per il problema fondamentale del vuoto di leadership. Il mondo bipolare divenuto apolare chiamava il caos. Il mondo dei trattati diventava, per colpa di tutti, quello dei pistoleri, dall’Iraq all’Ucraina. Lo scadimento delle classi dirigenti trasformava in forum competitivi anche quei consessi diplomatici nati per accelerare i punti di convergenza nei sistemi globali. Alla fine è giunta la morte a sollevare Kissinger dal peso di vivere in un mondo non più suo. Un mondo in cui spesso il suo operato è visto in bianco o nero, in maniera divisiva. Ma che resta un’ampia, strutturata scala di grigi. Con cui bisogna fare quotidianamente i conti.