Donald Trump e le auto importate: una storia d’amore impossibile che si è trasformata in una guerra commerciale che fa acqua da tutte le parti. Il presidente americano è da sempre convinto che basti piazzare un bel 25% di dazi su Canada e Messico per far tornare grande l’America. Ma il Wall Street Journal, che di certo non è il foglio dei radical chic di Brooklyn, ha fatto due conti e ha scoperto che questa genialata equivale a una mazzata fiscale da 150 miliardi di dollari l’anno per i consumatori americani. Un colossale autogol. Il problema è che il tycoon non ha mai amato troppo la logica e continua a vendere il sogno di un’America che produce e consuma tutto in casa. Soltanto che c’è un piccolo dettaglio: oggi è impossibile stabilire cosa sia davvero un’auto importata. Lo spiega anche il New York Times, smontando pezzo per pezzo la narrazione trumpiana. Facciamo un esempio: una Toyota Rav4 assemblata in Canada ha una gran parte dei componenti prodotti negli Stati Uniti, mentre una Nissan Rogue costruita negli Usa ha più pezzi giapponesi che americani. Morale? Se colpisci con i dazi i pezzi di ricambio, il prezzo finale dell’auto schizza alle stelle.

E infatti, secondo un’analisi dell’Anderson Economic Group citata dal Wall Street Journal, se Trump applicasse il 25% di dazi, il prezzo di un Suv full-size salirebbe di 9mila dollari e quello di un pick-up di 8mila dollari. Praticamente il contrario del sogno repubblicano di sostenere la classe operaia. Ma se la politica protezionista di Trump è un boomerang, la risposta dell’Europa è a metà tra la confusione e il servilismo. Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, in un’intervista con Cesare Zapperi del Corriere della Sera, ha parlato di dazi come un “flagello” e ha avvertito che l’Europa deve presentarsi unita per trattare con Trump. Il problema? L’Europa unita non esiste, e ognuno gioca la propria partita. Nel frattempo, c’è chi reagisce. Il presidente francese Macron si è allineato a Trudeau, e il Canada ha lanciato l’idea del “non comprare americano”. La Cina, invece, ha scelto un approccio più sottile: contro-dazi ridotti per evitare escalation e cercare di tenere buoni rapporti. Insomma, mentre gli Usa si sparano sui piedi, il resto del mondo cerca di non rimanere schiacciato dall’ennesima crociata di The Donald. Il problema di fondo? Trump vuole un’America che produce tutto in casa, ma il mondo non funziona più così. I dazi rallentano la crescita, fanno esplodere i prezzi e rendono impossibile la vita alle industrie che operano su scala globale. Ma tanto il suo elettorato vuole sentirsi dire che i nemici sono fuori, non dentro. E lui glielo ripeterà fino all’ultimo comizio.
