Sono reduce da due giorni di lutto per la morte di Silvio Berlusconi. Non pensavo di rimanere così coinvolto, sono stremato, gli occhi un po’ provati dalle lacrime, perché la commozione è stata tanta al punto che una collega mi ha allungato perfino un fazzoletto. Ho sempre avuto una profonda ammirazione per lui, di certo non ne ero abbagliato, a differenza di mia moglie Betta Guerreri che non solo lo amava, ma rivedeva in lui suo padre Arnaldo, la sua voglia di vivere, l’allegria a volte fuori luogo, ma sincera, il suo narcisismo magari sfrontato, ma che si realizzava e si compiaceva nel vedere gli altri felici, contenti di vivere attraverso il suo lavoro. E così, senza nemmeno chiedere, siamo stati invitati attraverso l’agente Paolo Chiparo, che era amico di Silvio, ad andare ad Arcore, nulla di clamoroso, giusto per portare un fiore, una preghiera, con Massimo Boldi («Era un amico e Monza gli deve subito dedicare lo stadio», dice, omettendo di dire che lui aveva lasciato le reti di Silvio per andare in Rai, ma poi Silvio, su intercessione di Bettino Craxi lo aveva perdonato). E ad Arcore c’è stato un momento davvero speciale, ben lontano da clamori, flash, e, nonostante fossimo nel piazzale di Villa San Martino, ho avuto la sensazione di un lutto da paese, con la signora del giornalaio che mi riconosce, il figlio del benzinaio che mi racconta di Piersilvio e suo papà, Piersilvio che s’affaccia dalla porta a vetri di casa perché tra poco arriva Giorgia Meloni, il pensionato che porta un fiore come noi e ci fa strada tra gentilissimi agenti della Protezione Civile.
Arcore è un paese, buone conoscenze, certo il caro estinto è l’uomo più famoso del paese, forse anche il più famoso e amato del Paese Italia, ma che importa era sempre lui, «il Silvio», con l’articolo, come usa qui. Lui aveva scelto la Brianza per vivere con i suoi figli, Pier Silvio, che ci è rimasto, Marina, che sta a Milano, ma qui a Arcore ha ancora una camera che viene chiamata «la camera di Marina», e poi i figli avuti da Veronica Lario, Barbara, che sta poco lontana, Eleonora, bellissima, e Luigi, il più giovane, molto amato, molto simpatico.
Mi vengono alla mente antichi ricordi. Il mio primo incontro con Silvio? Tra i miei amici ancora oggi lo chiamiamo il Silvione, un modo tutto lombardo per sottolineare la bonomia di un sentire, l’importanza e perfino l’ingombro di un talento unico. Fu a Milano, in via Rovani, la villa con giardino che aveva comprato fatti i primi soldi, come per sottolineare il suo ingresso tra l’alta borghesia meneghina. Era per la festa, credo, del primo anno di Canale 5, quindi era forse il 1981. Io ero un giovane giornalista, forse anche un po’ imbranato, ma nonostante questo ero stato invitato a partecipare. Eravamo in pochi, credo una quindicina. E fu lui a tagliare la torta e a porgermi il piattino da dessert con la fetta e la posata, come fa un qualsiasi padrone di casa.
È un episodio banale, ma che dice tutto sul Silvio Berlusconi privato, un uomo che aveva un’empatia tale, da farti sentire unico: quella fetta era solo per me, e me l’aveva servita lui. Credo che avesse capito il mio disagio in mezzo a quei tromboni di giornalisti che se la tiravano come pochi e che con me sembravano ancora più sicuri di sé di fronte alla mia naturale timidezza. La sua empatia negli ani non è mai cambiata e trametteva in chi si relazionava con lui la sensazione di essere unici e forse era davvero così.
Passano meno di venti ore ed eccomi nel Duomo di Milano per il funerale solenne, il funerale di Stato con il presidente Sergio Mattarella. «Vieni sei accreditato», mi dicono, anche se non l’ho chiesto, ma si vede che ci sono misteriose liste o qualcuno che ha segnalato un nome, il mio. piazza del Duomo è blindata, per accedere al Duomo si deve passare attraverso un varco da piazza Diaz. Poliziotti, addetti alla sicurezza, forse anche servizi segreti, tutti hanno le liste dei nomi e dei cognomi per entrare in enormi blocchi. Passo, nessuno mi chiede il nome, un documento, nulla, potenza della televisione, che rende inutile dire e provare chi sei, t’hanno visto, basta e avanza.
Mi siedo con Paolo Chiparo, onnipresente, e si siede con noi Ezio Greggio, solo e un po’ spaesato («Lavoro per lui da 40 anni quest’anno», mi dice, e usa il presente, perché lui, Silvio, c’è). In Duomo con Greggio guardiamo i televisori che trasmettono le immagini da Arcore, con le riprese dell’elicottero, fanno vedere il feretro sull’auto nel suo viaggio verso il Duomo. Quelle immagini, apparentemente così banali, sono forse quelle di maggior impatto su di me: Silvio è lì dentro, solo, inerme, ci ha lasciati, è il suo ultimo viaggio. Piango, un pianto calmo, senza singhiozzi, un pianto forse dettato dalla miseria della condizione umana che vedo in quegli schermi: si fa tanto, ci si sbatte, si lotta, si tiene botta, poi ti arriva una leucemia, ti curi, magari bene, per un paio d’anni, e in un attimo tutto è finito.
Anche Silvio piangeva, e io l’ho visto in lacrime. Era al funerale di Carlo Bernasconi, suo amico, presidente di Medusa, compagno della mia amica Eliana Miglio, l’attrice. Eravamo alla chiesa di Milano due. Volle ricordare Carlo con un discorso, dal leggio, ma, le lacrime gli strozzavano la voce e furono secondi di estrema dolcezza e di nostalgia per Carlo, un uomo stupendo. Tenne duro e poi riprese a parlare in un silenzio assordante. Lo stesso che ho sentito nel Duomo di Milano aspettando il suo arrivo in chiesa.
Ultimamente l’ho incrociato durante una sua visita a Mediaset, credo per un’intervista con Barbara d’Urso. L’atrio degli studi era stato messo a festa, divani bianchi, fiori: ci tenevano tutti a far vedere al meglio il risultato del suo lavoro. Quando ci andava voleva salutare quelli che lui aveva assunto e non erano ancora andati in pensione e non solo se li ricordava per nome, ma ricordava anche i loro figli, che avevano studiato, che si erano laureati, grazie al lavoro dei genitori nella sua azienda e questo era motivo di giusto orgoglio per lui.
Il Duomo era stato diviso in due: a destra, la famiglia con tutta Mediaset, nessun giornalista che non sia del gruppo, se non gli amici, i cinque figli, le nuore, i nipoti, diciassette (compreso il bisnipote, perché Pier Silvio è nonno, avendo avuto Lucrezia da un amore giovanile).
A sinistra i parlamentari, politici, sindaci, compreso il presidente Mattarella. In fondo anche la vita di Silvio è stata divisa in due: il lavoro e la politica, il Duomo s’è adattato. Ma chi è arrivato davvero al cuore di tutti sono stati gli applausi e gli slogan che arrivavano dalla piazza. «Un presidente, c’è solo un presidente», urlavano i tifosi del Milan e del Monza.
Voglio concludere con un’ultima osservazione sui suoi figli. Dalla prima moglie Carla Dall’Oglio («Sei stato un grane papà», ha scritto) ha avuto Pier Silvio e Marina, il primo amministratore delegato di Mediaset, la seconda presidente di Mondadori e Fininvest, e dalla seconda moglie, Veronica Lario, Barbara, Eleonora e Pierluigi. In altre famiglie di grande nome come la sua è tradizione che i padri e le madri cerchino di indirizzare i figli a legarsi con nomi illustri, per ceto, titolo nobiliare e soprattutto denaro.
I giovani Berlusconi invece hanno sempre seguito sempre e solo la strada del cuore, la strada che a “Silvione”, come lo chiamano amorevolmente chi gli voleva bene, gli aveva indicato suo mamma Rosa, che, incinta della figlia, aveva sfidato durante l’occupazione un soldato tedesco che voleva arrestate una donna ebrea e che minacciava anche Rosa col mitra («Potrai uccidere me, ma non ti salverai da chi ci sta intorno»). La salvò, come ha ricordato il premier israeliano Bibi Netanyahu in questi giorni pensando all’amico Berlusconi.
«Il cuore viene prima, senza cuore non si va da nessuna parte». Mi disse una volta e questo rimane il mio primo pensiero in ogni scelta di vita.
Grazie, Presidente. Suo Roberto Alessi